In questo articolo troverete l’intervista telefonica che “Le Iene” hanno fatto ad una ragazza che soffre di ansia e attacchi di panico. Penso che le parole provenienti da una persona che prova in prima persona tutta una serie di difficoltà valgano molto di più di mille articoli teorici proposti da uno psicoterapeuta. Auguro a tutti una buona lettura. In fondo alla pagina trovate il link al sito delle Iene in cui è stata pubblicata l’intervista che segue.
“Passavo le serate a letto, al buio, guardando il vuoto, con la paura che tornasse un nuovo attacco”. Jessica Maritato, 27 anni, racconta come combatte ansia e attacchi di panico con cui convive fin da bambina. Spazio aperto per chi vuole condividere la sua storia (anche in anonimato).
Apriamo una porta su un mare grande di segnalazioni, quelle che arrivano da chi soffre di ansia e attacchi di panico. La prima a metterci letteralmente la faccia, qui sopra, è Jessica Maritato, 27 anni. Ma lo spazio è aperto anche per chi preferisce l’anonimato, come a chi vuole fare una breve intervista video. Per raccontare e condividere la propria storia, cercare e proporre soluzioni. Partiamo intanto con Jessica, che si è sottoposta alla batteria di domande per telefono.
Qual è stato il momento peggiore?
“Tra maggio e giugno del 2015. La mia giornata tipo in quel periodo era: sveglia, attacco di panico, vomito, tremore, freddo, mio padre che mi sorreggeva e mi portava alla finestra a prendere un po’ d’aria. Mi rimettevo 10 minuti nel letto ancora tremante. Quando riuscivo a tornare con la testa alla realtà, mi lavavo, mi vestivo e mi facevo accompagnare a lavoro sempre da mio padre. Passavo la giornata in catalessi, cercavo di sorridere e fingere che andasse tutto bene. Rientrata a casa, stremata, mi lasciavo andare e abbassavo le difese. E lì tornava, vigliacco, l’attacco di panico. Passavo le serate a letto, al buio, guardando il vuoto. Non leggevo più, non uscivo più, non ascoltavo più la musica e non riuscivo nemmeno a guardare un film o la televisione. La mia testa era altrove, non riuscivo a distrarmi dall’unico pensiero fisso che avevo: la paura del ritorno di un nuovo attacco di panico”.
Erano i tuoi primi attacchi?
“Sì, almeno quelli di cui ero consapevole. Il negozio dove lavoravo stava chiudendo, ero terrorizzata all’idea di perdere il lavoro. Andando in terapia ho capito dopo che il problema non era il lavoro ma qualcosa di più profondo. Ho capito anche che avevo già avuto degli attacchi di panico in passato, perfino da piccola, ma non sapevo riconoscerli”.
Più ansia o panico per te?
“L’ansia mi tiene per mano da quando sono bambina. Ogni volta che devo affrontare una cosa nuova, una situazione diversa, qualcosa che non conosco, anche un luogo nuovo per esempio, ho l’ansia. L’ansia sale e scende, ci sono momenti in cui è molto presente e altri in cui mi rendo conto che è chiusa in un cassettino della mente. Ma so che c’è. Lei c’è sempre. Gli attacchi di panico ora ho imparato a riconoscerli, a gestirli e talvolta pure a prevenirli”.
Come si manifestano? Cosa ti succede?
“L’attacco di panico, una volta che l’hai provato, lo riconosci subito. Tachicardia, sudore alle mani, tremolio, bocca secca, mancanza di respiro, agitazione. Non riesci più a parlare e non riesci nemmeno a spiegare cosa ti sta succedendo e perché. Soprattutto, ti sembra di morire. Chi ha provato un attacco di panico sa che la sensazione che prevale su tutto: ‘Sto morendo, ora’. È la sensazione più brutta che abbia mai provato. È per questo che, quando lo provi una volta, poi sei terrorizzata che possa ripetersi”.
Come li combatti?
“Li combatto affrontandoli. Non ho mai fatto un giorno di malattia per questo, piuttosto mi tenevo tutto dentro ed esplodevo dopo. Avevo paura che se l’avessi fatto una volta, l’avrei fatto sempre. Avevo già rinunciato a uscire con il mio fidanzato o con gli amici e non potevo isolarmi totalmente dalla vita. Ora, rispetto a 3 anni fa, ho maggiore consapevolezza".
Cioè?
"So che non morirò, so che mi sentirò stanca e debilitata, ma passerà. Vado avanti a braccetto con l’ansia, a volte è talmente pesante che mi trascina lei, altre volte è piccola e leggera. Cerco di affrontarla sempre, sempre, sempre. La mia più grande preoccupazione era il giudizio degli altri, ho smesso di preoccuparmi di quello, e mi sono tolta il 50% del problema”.
Come è cambiata la tua vita?
“A cambiarmi è stata la terapia, con l’ansia credo di esserci nata quindi non riesco a fare paragoni. Non c’è un prima e un dopo l’ansia. La terapia, invece, ti cambia, in meglio. Ti aiuta a conoscerti perché c’è sempre, o quasi sempre, un perché arrivi ad avere un attacco di panico. A volte è un perché che nemmeno ti immagini, a volte sono tanti perché, altre ancora sono motivi che già conoscevi ma che nascondevi sotto il tappeto”.
Ti senti capita?
“Assolutamente no. Sicuramente le persone a me più care provano a capirmi e a starmi vicino, ma non capiscono realmente cosa e come sia convivere con l’ansia. Credo sia impossibile capire cosa vuol dire avere un attacco di panico e vivere perennemente in apnea. O sei cosi o non lo sei. È un po’ come quando si parla di depressione e le persone dicono: ma ha tutto dalla vita, sta bene, ha una bella famiglia, ha un buon lavoro, fa una bella vita… purtroppo queste cose non si controllano, non si decidono, non le cerchiamo e non le vogliamo, come una qualsiasi malattia che colpisce il fisico”.
Cosa ti dà più fastidio nell’atteggiamento degli altri?
“Chi ti dice: a me sembra che stai bene, sei allegra, scherzi sempre. Dovrei indossare una t-shirt con scritto “Soffro d’ansia”? Ultimamente va pure di moda dire: “Oddio, ho l’ansia”. Spesso confondiamo le sensazioni: l’agitazione, l’emozione, la trepidazione dell’attesa con l’ansia. È uno dei motivi per cui molti sottovalutano il problema: credono si sapere di cosa si parla, invece è proprio un’altra cosa”.
Ti senti mai “debole” o “fifona”?
“Mi sentivo molto debole, fifona, sbagliata, esagerata, una che fa del vittimismo. La terapia mi ha aiutata ad accettarmi. Io sono così. Fifona e debole? Sì, agli occhi di qualcuno sicuramente. Ora, però, mi sento forte. So solo io quanta fatica faccio ogni volta che vado dalla psicologa, so solo io come ne esco distrutta. Alla fine di ogni seduta sembra che mi sia passato sopra un tir, mi sento di aver fatto una centrifuga in una mega lavatrice o come se avessi camminato nuda in piazza Duomo. So solo io quanto è difficile affrontare le mie paura, le mie ansie, arrivare a fine giornata con fatica, ma arrivarci avendo fatto quello che mi ero prefissata”.
Meglio i farmaci, lo psicologo o lo psichiatra? Oppure fare da sé, aiutata magari da familiari/amici/compagno?
“Per me l’unica cosa che aiuta davvero è la terapia. Lo psicologo e, se necessario, terapie farmacologiche. Solo lo psichiatra può prescriverti però dei medicinali. Nel 2015 ho preso anche dei farmaci, per 6 mesi, e non mi hanno mai dato né problemi né dipendenza. Lo psicologo purtroppo è una figura sottovalutata”.
Perché?
“Andarci non può essere ancora un tabù nel 2018. È assurdo associare il fatto di andare da uno psicologo a una debolezza o a un capriccio oppure a chissà a quale grave malattia mentale. È vero: costa, ma ci luoghi in cui puoi cercare aiuto da un professionista gratuitamente. Il costo è relativo, dipende sempre dalle priorità di ognuno. Mi hanno fatto i conti tasca milioni di volte: ‘Ah, ma tu puoi’. No, io voglio, punto. Io voglio stare meglio, voglio avere il controllo delle mie emozioni e della mia vita. Questa è la mia priorità".
Hai fatto rinunce per continuare con la terapia?
"L’ultimo modello di iPhone, la cena fuori, la serata a ballare, le scarpe nuove, le unghie laccate, i capelli perfetti, le ciglia finte, la macchina belle e potente… non sono, al momento, una mia priorità. Vorrei vivere in un Paese in cui andare dallo psicologo sia normale, come dire ‘Oggi vado a fare la ceretta’! Vorrei vivere un Paese che mette a disposizione un servizio gratuito per tutti, un servizio che funzioni però! Se non andassi in terapia e risparmiassi questi soldi, ma non riuscissi a uscire di casa come starei? So che tornerei come nel 2015 quando non mettevo piede fuori casa, se non per andare a lavoro. Sul letto, senza appetito, con un nodo in gola e uno nello stomaco, con gli occhi gonfi, le mani tremanti e sudate: cosa me ne farei di quei soldi risparmiati?”
Problemi con il lavoro per i tuoi disturbi?
“Lavoro per un’azienda di abbigliamento da 6 anni: come commessa in negozio per 6 mesi e gli altri 6 nello showroom aziendale, in un ambiente molto tranquillo, quasi familiare. Non ho mai avuto problemi. Ho dei colleghi eccezionali, comprensivi, gentili e sempre pronti a sostenermi. Non mi sono mai sentita giudicata da loro, non mi hanno mai detto qualcosa che mi ha fatto sentire sciocca e fifona. Mi sono sempre stati accanto come potevano, con una parola, un abbraccio o un semplice sorriso d’amore”.
Ne hai parlato in famiglia o con il tuo compagno?
“Ne ho parlato e ne parlo tuttora, sempre. La mia famiglia e il mio compagno sanno tutto e hanno assistito a ogni mio regresso e progresso. Ne ho parlato apertamente nel 2015, o meglio, è stato mio padre a capire che c’era qualcosa che non andava e mi ha spinta ad andare dalla psicologa. Mio padre è una persona semplice che non sa nemmeno cosa significhi andare in terapia e che forse nel passato storceva il naso quando si parlava del mestiere dello psicologo. Eppure si è sentito talmente tanto impotente in quel periodo che non sapeva a chi o a cosa aggrapparsi e mi ha indirizzata, inconsapevolmente, nella direzione giusta”.
Fa bene parlarne?
“Sì, fa bene parlarne, ma non sempre e a chiunque. All’inizio non ne parlavo con nessuno, poi ho pensato fosse anche giusto spiegare cosa mi stesse succedendo. Più che altro per ‘giustificare’ le mie assenze e per avere un po’ di conforto. Non sono stata capita, anzi sono stata giudicata in malo modo. Non è bello sentirsi sminuire e sentirsi dare della capricciosa, soprattutto se sai quanto ti sia costato aprirti. Quindi sì, fa bene parlarne con chi vuole ascoltare, con chi sa mettersi nei panni di un altro".
Chi ti ha capita di più?
“Non per forza gli amici di una vita. Ho trovato più comprensione in persone che conoscevo da poco ma con cui c’è stata subito complicità. Ho trovato più conforto in uno sguardo regalatomi da un conoscente che in frasi dette dagli ‘amici’. Ho trovato più gentilezza ed empatia da persone che vedevo una volta al mese, rispetto a chi vedevo 5 giorni a settimana”.
Prova a spiegare cosa sono l’ansia e il panico a chi non ne soffre?
“Credo sia impossibile da spiegare e impossibile da comprendere se non lo provi sulla tua pelle. A volte è difficile anche spiegarlo a me stessa. Quando sto bene, sono spensierata e felice, mi domando: ma perché poi torna? Ma perché non riesco a cacciarla per sempre? Ma perché, se riesco a stare così bene, poi deve riaprirsi quel maledetto cassetto e riportarmi giù nell’abisso dell’ansia?”.
Sono un qualcosa di più nella vita rispetto agli altri o un qualcosa di cui ti libereresti subito?
“Ovviamente me ne libererei subito. Non vorrei essere così, chi vorrebbe essere costantemente sul punto di star male? Chi lo sceglierebbe? Certo, sono fiera del percorso che ho fatto e sto facendo: ho imparato tantissime cose e sono una persona nuova. So però che quest’ansia come sottofondo della mia vita ci sarà sempre: se potessi scegliere me ne libererei subito”.
Cosa consigli a chi ne soffre come te?
“Consiglio di farsi aiutare da un professionista. Consiglio di rinunciare a qualcosa, che sia in termini di denaro o di tempo, e di chiedere aiuto. Consiglio di non abbattersi se non si riesce a trovare un terapeuta adatto alla propria persona e alle proprie esigenze, continuate a cercare chi può aiutarvi. Consiglio di non vergognarsi, di non chiudersi a riccio, di non isolarsi”.
E a chi vive accanto a chi ne soffre?
“A chi è accanto ad una persona che soffre di ansia e attacchi di panico consiglio di farla riflettere sulla possibilità di andare in terapia. Poi consiglio di non strafare. Non sempre parlare è la soluzione migliore, non sempre uscire e distrarsi è la cosa migliore da fare. A volte una persona che soffre d’ansia ha solo bisogno di un abbraccio, un sorriso e silenzio. Molto spesso dopo un attacco di panico ci si sente debilitati e stanchi. Star vicino ad una persona vuol dire anche sedersi di fianco a lei e lasciarla piangere mentre si guarda un film. Non domandate sempre: vuoi parlare? stai bene? com’è andata oggi? Cercate di trasmettere a questa persona che ci siete, sempre, ma non assillatela. Sapere che c’è qualcuno che ci ascolta o ci abbraccia è già una grande cosa. Poi c’è una cosa che non sopporto, da non fare mai”.
Quale?
“Chiedere sempre ‘perché?’. Perché hai avuto un attacco di panico? ‘Non lo so’. Perché oggi ti è capitato e ieri no, visto che hai fatto la stessa cosa? ‘Ma che domanda del cazzo! Nuovamente, non lo so!”. Perché non riesci a stare tranquilla? ‘Per l’ennesima volta, non lo so… Ma se tu lo sai fammi un fischio’. Perché te le vai a cercare? ‘Cosa mi cerco? L’ansia? Sono masochista?’. Insomma, cercate di far capire che ci siete ma non tartassate la persona che non sta bene. A volte basta solo far entrare un po' di luce".
Il link all’articolo originale è:
Intervista delle Iene ad una ragazza che soffre di ansia e attacchi di panico
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Sono anni ormai che si parla di sexting (crasi dei termini inglesi sex e texting), la pratica di inviare o postare messaggi di testo e immagini a sfondo sessuale, come foto di nudo o semi-nudo, inizialmente via cellulare o tramite Internet, oggi sempre più attraverso app e/o social network. Un esempio pratico sono quelle situazioni in cui gli adolescenti producono e condividono in maniera consensuale immagini “sexy” di se stessi, spesso tra fidanzati/e, utilizzando lo smartphone che possiedono ormai in età sempre più precoce.
Secondo uno studio commissionato nel 2009 dal Center di Washington, il sexting può essere suddiviso nelle seguenti tipologie:
Il sexting, divenuto rapidamente una vera e propria moda fra i giovani soprattutto occidentali, consiste principalmente nello scambio di messaggi sessualmente espliciti e di foto e video a sfondo sessuale, spesso realizzate con il telefono cellulare, o nella pubblicazione tramite via telematica, attraverso canali come chat, social network, internet e varie app. Tali immagini, anche se inviate in origine a una ristretta cerchia di persone, in seguito si possono diffondere in modo incontrollabile e creare problemi seri alla persona ritratta.
È un fenomeno comune tra gli/le adolescenti che oggi, data la disponibilità delle nuove tecnologie, vivono in maniera inedita la fase di scoperta della propria identità e, in particolare, della propria sessualità. Il fenomeno si verifica più frequentemente tra i ragazzi delle scuole superiori e proprio per questo è importante la prevenzione durante gli anni della scuola secondaria di primo grado. Dare/diffondere un’immagine “provocante” di se stessi può rappresentare un “regalo” molto intimo o divertente per un fidanzato o una fidanzata; può anche rappresentare un modo per dimostrarsi “adulti” o “più maturi” non solo agli occhi degli altri, ma anche verso se stessi e può aiutare per gestire, a livello inconsapevole, le tante insicurezze tipiche dell’età adolescenziale.
Se non c’è da scandalizzarsi, c’è comunque da ricordare l’importanza di un’attenzione educativa alle relazioni tra i generi, al rispetto dell’altro, all’educazione affettiva e sentimentale. Perché spesso il sexting diventa un problema: il materiale che doveva rimanere privato comincia invece a girare e diventa oggetto pubblico, configurando una dinamica fin troppo nota: uno dei due può tradire la fiducia e la cassa di risonanza fornita da Internet crea un pubblico che alimenta la “vittimizzazione” di colui o colei le cui immagini sono state rese pubbliche senza il proprio consenso.
L’utilizzo delle nuove tecnologie e l’impatto che quest’uso ha nella modalità in cui il fenomeno si manifesta e nelle conseguenze che alcuni comportamenti possono avere nella vita degli adolescenti coinvolti, pone una serie di problemi che riguardano:
È importante sapere inoltre che si può infrangere la legge. Far girare foto del genere, al di fuori dello scambio consensuale e privato, anche tra minori, può essere considerato diffusione di immagini pedo-pornografiche Con la LEGGE 1 ottobre 2012, n. 172 è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote sullo sfruttamento e l’abuso sessuale dei minori, in particolare si definisce: Articolo 20.2 - Reati relativi alla pornografia infantile, 2. Ai fini del presente articolo, l'espressione "pornografia infantile" definisce ogni tipo di materiale che rappresenta visivamente un bambino che si dà ad un comportamento sessualmente esplicito, reale o simulato, o qualsiasi rappresentazione degli organi sessuali di un bambino per scopi essenzialmente sessuali.
Le dinamiche di sexting si contraddistinguono per alcune caratteristiche ricorrenti:
Spesso, infatti, i cambiamenti comportamentali sono aspecifici, ovvero possono essere il risultato di differenti problematiche; è però fondamentale essere osservatori attenti per poter aiutare il prima possibile un bambino o un adolescente che si trovi ad esperire una situazione di difficoltà in Rete, qualunque essa sia.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
A partire dagli anni 2000, con l'avvento di Internet, si è andato delineando un altro fenomeno legato al bullismo, anche in questo caso diffuso soprattutto fra i giovani, il cyber-bullismo.
Rispetto al bullismo tradizionale nella vita reale, il cyberbullismo avviene su internet talvolta causando danni violenti. Vediamo le differenze principali tra i due fenomeni:
Come nel bullismo tradizionale, però, il prevaricatore vuole prendere di mira chi è ritenuto "diverso", solitamente per aspetto estetico, timidezza, orientamento sessuale o politico, abbigliamento ritenuto non convenzionale e così via. Gli esiti di tali molestie sono, com'è possibile immaginarsi a fronte di tale stigma, l'erosione di qualsivoglia volontà di aggregazione e il conseguente isolamento, implicando esso a sua volta danni psicologici non indifferenti, come la depressione o, nei casi peggiori, ideazioni e intenzioni suicidarie. Spesso i molestatori, soprattutto se giovani, non si rendono effettivamente conto di quanto ciò possa nuocere all'altrui persona. Il fenomeno del cyberbullismo si può considerare strettamente correlato a quello dei cosiddetti "leoni da tastiera".
Esistono vari tipi di cyberbullismo:
Da una recente ricerca, emerge che il 35% dei ragazzi intervistati è stato vittima di cyberbullismo, ma solo 1 su 2 ha avvisato i genitori (Telefono Azzurro e DoxaKids, 2017). Quando i ragazzi non ne parlano direttamente, per accorgersene lo strumento più importante è il rapporto che si è costruito con loro. Se è buono, è più probabile che siano loro a raccontare ad un adulto di fiducia cosa sta accadendo. Altrimenti ecco alcuni segnali:
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Il bullismo è una forma di comportamento sociale di tipo violento e intenzionale, di natura sia fisica che psicologica, oppressivo e vessatorio, ripetuto nel corso del tempo e attuato nei confronti di persone considerate dal soggetto che perpetra l'atto in questione come bersagli facili e/o incapaci di difendersi. L'accezione è principalmente utilizzata per riferirsi a fenomeni di violenza tipici degli ambienti scolastici e più in generale di contesti sociali riservati ai più giovani. Lo stesso comportamento, o comportamenti simili, in altri contesti, sono identificati con altri termini, come mobbing in ambito lavorativo o nonnismo nell'ambito delle forze armate.
Il bullismo, a differenza del vandalismo e del teppismo, si presenta come una forma di violenza antitetica a quelle rivolte contro le istituzioni e i loro simboli (docenti o strutture scolastiche): queste ultime sarebbero esogene, dove il bullismo è, invece, endogeno, inoltre è da sottolineare come quasi sempre, in particolare nei casi di ostracismo, l'intera classe di attendenti tende ad essere coinvolta nel bullismo, attivo o passivo, rivolto verso le vittime del gruppo, tramite meccanismi di consenso, più o meno consapevole, non solo nel timore di diventare nuove vittime dei bulli, o per mettersi in evidenza nei loro confronti, ma perché questi spesso riescono ad esprimere la cultura identitaria del gruppo, sia pur in negativo, attraverso la designazione della vittima quale capro espiatorio.
Generalmente, il ciclo può includere sia atti di aggressione sia atti di reazione a disposizione dell'eventuale vittima che sono interpretati come stimolanti da parte del bullo. Il ciclo si basa essenzialmente sulla capacità di avere sempre degli stimoli che possano motivare l'aggressore a porre in essere i propri propositi deviati, a volte reiterati nel lungo termine per mesi, anni o per tutta la vita. Allo stesso tempo il ciclo può essere subito interrotto al suo nascere, o durante la sua progressione, se viene a mancare o l'atto abusivo o la risposta della vittima.
Mentre il coinvolgimento sociale può sembrare complicato per comprendere l'attività bullistica, lo stimolo che più frequentemente è implicato nella riattivazione del ciclo è la sottomissione. Nel momento di percezione dello stimolo, l'istigatore tenta di ottenere un riconoscimento pubblico per ciò che andrà a compiere, come dire: «vedetemi e temetemi, sono così forte che ho il potere di incutere timore verso qualsiasi persona ed in qualsiasi momento senza pagare alcuna conseguenza per le mie azioni!».
Nel momento in cui la vittima dimostra di possedere delle tendenze passive o comunque che la inibiscono di reagire, allora il ciclo continuerà a riattivarsi. Nei casi in cui il ciclo non si è stabilito ancora, la vittima potrebbe rispondere in modo che qualsiasi tentativo da parte dell'aggressore non avrebbe alcun effetto. All'uopo, le istituzioni possono inibire o rafforzare il bullismo, ad es., colpevolizzando le vittime ed inducendole a risolvere da soli i propri problemi.
Il bullismo si basa su tre principi:
Vale a dire un'azione intenzionale eseguita al fine di arrecare danno alla vittima, continuata nei confronti di un particolare compagno, caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi compie l'azione e chi la subisce (ad esempio per la mancanza di una tecnica di autodifesa). Il bullismo, quindi, presuppone la condivisione del medesimo contesto deviante.
Esistono diversi tipi di bullismo, che si dividono principalmente in bullismo diretto e bullismo indiretto.
Il bullismo diretto è caratterizzato da una relazione diretta tra vittima e bullo e a sua volta può essere catalogato come:
Il bullismo indiretto è meno visibile di quello diretto, ma non meno pericoloso, e tende a danneggiare la vittima nelle sue relazioni con le altre persone, escludendola e isolandola per mezzo soprattutto del bullismo psicologico e quindi con pettegolezzi e calunnie sul suo conto.
Nelle azioni di bullismo vero e proprio si riscontrano quasi sempre i seguenti ruoli:
Una prima distinzione è in base al sesso del bullo: i bulli maschi sono maggiormente inclini al bullismo diretto, mentre le femmine a quello indiretto. I maschi in particolare, tendono maggiormente all'approccio di forza, mentre le femmine preferiscono la mormorazione. Per quanto riguarda invece l'età in cui si riscontra questo fenomeno, si hanno due diversi periodi. Il primo tra i 8 e i 14 anni di età, mentre il secondo tra i 14 e i 18, ma negli ultimi anni si sono riscontrati fenomeni di bullismo anche tra i ragazzi di 11 anni e anche di meno.
Una quarta figura è rappresentata dall'"attendente o spettatore" che partecipa all'evento senza prendervi parte attivamente. Il bullismo, quindi, varia da un semplice rapporto diadico ad una gerarchia di bulli che si circuiscono a vicenda.
Gli effetti del bullismo possono essere gravi e permanenti. Il collegamento tra bullismo e violenza ha attirato un'attenzione notevole dopo il massacro della Columbine High School nel 1999. Due ragazzi armati di fucili e mitragliatori uccisero 13 studenti e ne ferirono altri 24 per poi suicidarsi. Un anno dopo un rapporto ufficiale della CIA ha messo in luce ben 37 tentativi pianificati da altrettanti ragazzi in diverse scuole statunitensi, per i quali il bullismo aveva giocato un ruolo chiave in almeno due terzi dei casi.
Si stima che circa il 60-80% del totale del bullismo a scuola, stia evolvendo verso forme inattese in senso stragistico e terroristico. Molti criminologi, ad esempio, si sono soffermati sull'incapacità della folla di reagire ad atti di violenza compiuti in pubblico, a causa del declino della sensibilità emotiva che può essere attribuito al bullismo. Quando, infatti, una persona veste i panni di bullo, assume anche uno status che lo rende meno sensibile al dolore, fino al punto che anche gli attendenti iniziano ad accettare la violenza come un evento socialmente conveniente. A tal proposito l'Anti-Bullying Centre at Trinity College di Dublino è intenta ad approfondire le conseguenze del bullismo sugli aggressori stessi, sia minorenni che adulti, i quali sono più soggetti a soffrire di una serie di disturbi quali depressione, ansia, deficit di autostima, alcolismo, autolesionismo ed altre dipendenze.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I temi affrontati in queste due stagioni sono molteplici, attuali e alcuni tratti dalla realtà. La seconda stagione di Serie tv Tredici (seconda stagione) in particolare ha delle scene talmente violente, esplicite e controverse, che molte persone si sono chieste se fosse realmente necessario includerle in una serie per adolescenti. Gli sceneggiatori si sono giustificati sostenendo che hanno sviluppato le storie con l’aiuto di esperti e, di fatto, varie trame della seconda stagione si basano su vicende realmente accadute. L’obiettivo dei creatori di Tredici era proprio questo, ovvero dimostrare che ci sono situazioni apparentemente surreali ma che fin troppo spesso hanno riscontro nella realtà. Ed è proprio la sensazione che si sta assistendo a qualcosa di surreale che mi ha accompagnato durante la visione della serie. Ma questa sensazione non è altro che una difesa da un pensiero che genera angoscia: queste cose esistono, sono fin troppo reali. Non assistiamo a supereroi che volano e lottano contro creature aliene, non assistiamo ad una banda di nani ed elfi alla ricerca di un anello che porrà fine a tutti i mali del mondo; nello schermo si susseguono le vicende di un gruppo di adolescenti che fa i conti con le difficoltà legate a questa particolare fase di vita: il sentirsi accettati dal gruppo dei pari, la possibilità di fidarsi delle amicizie, la scoperta della sessualità e della propria identità, il rapporto con i genitori, il rapporto con le autorità dell’istituzione scuola, la modalità di gestire e superare il dolore e l’ansia, la paura di essere brutti, il sentirsi fragili dentro e il doversi mostrare spavaldi fuori.
Uno dei personaggi più controversi a mio avviso è Tyler, il ragazzo timido e introverso appassionato di fotografia. Non ha amici se non la sua macchina fotografica, che porta sempre con sé e che usa per immortalare tutti gli eventi scolastici, ufficiali e non. La sua mania per le fotografie lo porta a essere poco apprezzato dai compagni, che si infastidiscono non appena lo vedono. Spesso è preso di mira da parte dei bulli della scuola, e Hanna gli dedica una cassetta a causa di alcune foto scattate di nascosto e poi fatte circolare in cui si vede Hanna baciarsi con un’altra ragazza. Nella seconda stagione Tyler fa un’evoluzione importante. Stringe amicizia con Cyrus, un ragazzo punk con idee ben precise sul sistema e su come sovvertirlo. Questa amicizia si rivela malsana per entrambi i ragazzi: iniziano a compiere atti vandalici ai danni del gruppo dei bulli della scuola, imparano a usare le armi (ricordiamoci che la serie è ambientata in America, un paese dove le armi vengono vendute nei supermercati), si mettono nei guai più di una volta. Tyler è felice, finalmente ha stretto amicizia, ha trovato un gruppo che lo accetta, ha trovato un amico. Ma una serie di eventi porta la situazione a precipitare: dopo aver litigato con Cyrus, ma soprattutto dopo aver subito violenze in un bagno (tre ragazzi lo violentano con un bastone di scopa), la psiche del ragazzo crolla definitivamente. Personalmente ogni volta che vedevo Tyler, durante la visione della serie, avevo in mente la canzone “Jeremy” dei Pearl Jam. E non avevo tanto torto visto che Tyler alla fine della seconda stagione decide di fare una strage durante il “ballo di primavera” della scuola, presentandosi a scuola armato come un militare in guerra. Sarà Clay a farlo ragionare e a fermarlo. Le vicende di Tyler, pur sembrando surreali, prendono spunto purtroppo da fatti di cronaca realmente accaduti; sia la violenza subita nei bagni della scuola (in una scuola del Tennessee nell’ottobre del 2017, cinque ragazzi tentarono di violentare un coetaneo con un palo di metallo), sia il percorso verso la follia che richiama molto al massacro della Columbine High School avvenuto nel 1999 (Infatti, uno stralcio di dialogo dell’ultimo episodio è preso interamente dall’attacco reale. Tyler dice a Clay: “Vattene da qui. Vattene a casa”. Eric Harris, uno degli assassini, vide uno dei suoi amici prima di entrare nel famoso liceo e gli disse queste esatte parole. La destrezza nel costruire bombe casalinghe o le magliette che vediamo indossare ad entrambi sono anch’esse citazioni a Harris e al suo compagno Dylan Klebold). Il legame tra bullismo e reazioni violente contro la scuola ha cominciato ad attrarre sempre più attenzioni in seguito al massacro alla Columbine del 1999. Entrambi gli autori della strage erano considerati ragazzi dotati, che a quanto pare erano stati vittime di atti di bullismo per anni.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Qualche giorno fa ho terminato di guardare la seconda stagione della tanto discussa quanto acclamata serie tv Tredici. Non avevo grandi aspettative, personalmente credo che difficilmente le seconde stagioni riescano a eguagliare il successo delle prime, soprattutto quando le prime stagioni sono basate su un libro di successo. Ma non sono qui per discutere su quanto sia bella o brutta la seconda stagione di Tredici, più semplicemente vorrei utilizzare la serie come spunto per poter riflettere su alcuni temi purtroppo molto attuali.
Tredici (13 Reasons Why, reso graficamente TH1RTEEN R3ASONS WHY) ruota attorno alle vicende che seguono il suicidio dell'adolescente Hannah Baker, la quale ha registrato i tredici motivi che l'hanno spinta a suicidarsi. La Liberty High School, liceo di una piccola cittadina americana, è sconvolta dal recente suicidio della studentessa, tagliatasi le vene qualche settimana prima. Clay Jensen, anch'esso studente della Liberty High, tornando a casa trova una scatola sulla veranda al cui interno ci sono sette cassette registrate dalla stessa Hannah, in cui spiega le tredici ragioni che l'hanno spinta a togliersi la vita. Clay capisce così di avere a che fare con questa storia e inizia l'ascolto dei nastri. Lo spettatore è catapultato all’interno di una scuola superiore americana, dove si intrecciano le vite di un gruppo di adolescenti che, in un modo o in un altro, provano a “sopravvivere” giorno dopo giorno.
Devo dare per scontato che chi sta leggendo abbia già visto entrambe le stagioni, perché la trama è complessa, i personaggi sono così tanti che descriverli tutti mi porterebbe lontano dalle intenzioni con cui sto scrivendo queste pagine. Se ancora non avete visto Tredici affrettatevi a farlo, perché bella o brutta che sia penso che sia una serie da vedere. Va vista per le emozioni che suscita, per i contenuti estremamente reali (anche se a volte possono apparire esagerati), per lo sguardo che pone al dolore adolescenziale e per le modalità con cui questo dolore viene espresso in questa epoca, dolore che non coinvolge solo gli adolescenti ma tutta la comunità.
Non solo Tredici è una serie che va vista, ma va vista “insieme”, non nel senso del binge watching (termine con cui si indica l'atto del binge-watch ossia il guardare programmi televisivi per un periodo di tempo superiore al consueto, particolarmente l'usufruire della visione di diversi episodi consecutivamente, senza soste), ma nel senso che, a mio avviso, andrebbe vista da genitori e figli adolescenti (o pre-adolescenti) insieme, perché la visione di questa serie può diventare una grande occasione di confronto tra due generazioni, apparentemente lontane tra loro, su tematiche importanti quali il suicidio, il bullismo, il cyber bullismo, il sexting, la pornografia, il sesso, la dipendenza, l’uso di alcool, i contenuti violenti dei videogame, le relazioni tra genitori e figli, il cutting e molti altri ancora. Un piccolo consiglio per i genitori: guardatela prima voi, e poi guardatela una seconda volta con i vostri figli: sarete più preparati ad affrontare certi argomenti. E questi argomenti vanno sicuramente affrontati, in quanto le narrazioni aiutano i ragazzi a configurare e mostrare i loro bisogni profondi, dato che, alla loro età, sono disposti a parlare di sé agli adulti solo indirettamente. Conoscere il libro, la canzone, il film, e appunto la serie tv, preferiti di un adolescente è essenziale per cogliere la direzione del suo sguardo. Conoscere le narrazioni con cui si identificano è essenziale. La letteratura è un lusso ma la narrativa è una necessità. Le serie tv sono un banchetto per la fame di storie, che ci caratterizza e va oltre la mera necessità di allentare la tensione del duro vivere quotidiano. Vale soprattutto per gli adolescenti, per i quali le narrazioni sono veri e propri saggi di identità personale e sociale. La nostra identità è un racconto, senza il quale ci perderemmo negli eventi senza riuscire a dar loro un senso. Sin da bambini amiamo ascoltare le stesse favole, raccontate nello stesso modo, perché da quelle narrazioni dipende l’ordine del mondo.
Uno dei grandi protagonisti di entrambe le stagioni di Tredici è il silenzio: il silenzio dei non detti tra amici o tra fidanzati, il silenzio dei propri vissuti interiori che non trovano espressione se non in agiti, ma soprattutto il silenzio tra genitori e figli. Non credo sia più accettabile il mutismo tra generazioni, tra padri e madri in una stanza e figli e figlie nell’altra. Nel mutismo prendono il sopravvento rancori e odi. Ovviamente due generazioni non possono condividere gli identici schemi esistenziali o i gusti imposti dalle mode, ma il dissenso non può in alcun modo alterare il legame d’amore. Le visioni del mondo, i comportamenti sostanziali (ma anche quelli di minor rilevanza), vanno discussi, ognuno deve chiaramente esprimere cosa ne pensa, ma non giungere alle imposizioni che spaccano i legami e ammazzano l’amore.
Nella serie Tredici assistiamo a molti (ma non tutti) esempi di “cattiva” genitorialità. Alcuni casi a mio avviso si collocano ai limiti dell’impossibile (come i genitori che continuano a mandare la figlia che ha subito violenze sessuali nella stessa scuola in cui c’è il suo violentatore), ma in linea di massima quella che sembra mancare è la possibilità per questi ragazzi di confidarsi con adulti che non siano troppo distratti dal loro lavoro o da altre esperienze. Nella serie troviamo genitori talmente ricchi da essere sempre in vacanza, o talmente poveri che la loro unica fonte di preoccupazione è il procurarsi la droga; oppure troviamo i genitori della protagonista impegnati nell’avvio della loro attività commerciale e alle prese con una crisi coniugale; o ancora vediamo genitori “amici” che quasi fomentano e appoggiano i comportamenti vandalici e antisociali dei figli; Purtroppo dentro queste famiglie assistiamo inermi ai clichè che gli autori stessi ci impongono, per cui il figlio dei genitori ricchi diventa uno stupratore che “prende ciò che vuole” perché non abituato a sentirsi dire di no, il figlio della donna eroinomane diventa a sua volta tossicodipendente e la figlia adottata dalla coppia omosessuale è a sua volta lesbica. Bisogna andare oltre questi sterili clichè (e ammetto che può non essere facile quando certi fenomeni vengono presentati come effetto diretto e scontato di altri con una naturalezza disarmante) per rendesi conto che la disfunzionalità di queste famiglie è data da una totale mancanza di comunicazione al loro interno.
Le figure adulte presenti nella serie non sembrano figure in cui un adolescente possa identificarsi. Sembrano adulti che fanno i genitori senza esserlo. Nella vita reale occorrerebbe che gli adulti dedicassero più tempo all’essere coerenti e autorevoli, invece che autoritari, lasciando da parte per un po’ la corsa al successo, alla ricchezza, al benessere. Ci sono troppi padri che danno tutto, in termini di oggetti e denaro, ma non sono in grado di essere ascoltati (o di ascoltare) perché mancano di quella credibilità che appunto li fa percepire come modelli da imitare.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I disturbi d’ansia rappresentano un’area di sovrapposizione diagnostica tra cardiologia e psicologia/psichiatria. Molti pazienti cardiologici presentano una sintomatologia di tipo ansioso che richiede un trattamento psicoterapico e/o farmacologico, mentre molte patologie cardiache possono essere confuse talvolta con disturbi di tipo psichiatrico. Ad esempio, il prolasso della valvola mitralica può manifestarsi esclusivamente con episodi di ansia acuta e con la presenza di palpitazioni, senso di testa vuota, vertigini, affaticamento, dolore toracico e dispnea. La sintomatologia ansiosa potrebbe far cadere nell’errore diagnostico di disturbo da attacchi di panico.
È inoltre tipico del soggetto ansioso adottare stili di vita ad alto rischio per patologie cardiache: abitudine al fumo, iperalimentazione, alcool, ridotta attività fisica. Un altro fattore di rischio importante per patologie coronariche è rappresentato dalla personalità stessa dell’individuo. Diversi studi hanno evidenziato come un determinato pattern comportamentale sarebbe maggiormente incline allo sviluppo di coronopatie e venne definito come comportamento di “tipo A”. le principali caratteristiche del soggetto di tipo A sono: impazienza, accelerazione, rapidità, aggressività, parlare a voce alta, ambizione, competitività, aspettativa di standard eccessivamente alti, comportamento duro, tensione della muscolatura facciale, potenziale ostilità. Tale personalità sarebbe anche caratterizzante del soggetto con ipertensione arteriosa essenziale che rappresenta un fattore di rischio per patologie vascolari acute.
Nella respirazione sono presenti più livelli funzionali: neurovegetativo, somatico automatizzato di base, pattern respiratori legati a specifici quadri emozionali, respiro volontario.
Per un medico è clinicamente semplice osservare e rilevare in un individuo la presenza di uno stato d’ansia in base al respiro rapido e superficiale: il modo di respirare e di gestire il proprio corpo nello spazio è un utile indicatore e indizio dello stato emozionale dell’individuo. Non solo l’emozione influisce sul respiro, ma è anche vero il contrario: il respiro infatti, contrariamente al battito cardiaco e alla motilità gastrointestinale, è facilmente percepito e alterato dal controllo volontario. I pazienti ansiosi sono caratterizzati da un aumento del volume della gabbia toracica, aumento della frequenza e riduzione dell’ampiezza del respiro rispetto ai non ansiosi. L’iperventilazione si accompagna a un aumento della frequenza cardiaca e a un aumento della sensazione soggettiva di ansia. Per questo consiglio sempre ai miei pazienti di non fare respiri lunghi e profondi durante un attacco i panico. La “fame d’aria” rappresenta molto spesso un sintomo dello spettro ansioso, in particolare del disturbo di attacco di panico.
Lo stomaco è il nostro “cervello emotivo”. Le prime descrizioni sulla relazione tra emozioni e funzionalità del tratto gastro – enterico furono condotte nel 1825 dal chirurgo Beaumont il quale osservò le modificazioni causate da vari stati emozionali sulla mucosa gastrica di un individuo che, a causa di una ferita da arma da fuoco, esibiva un ampio segmento esposto di mucosa gastrica. Numerose ricerche hanno evidenziato come situazioni interpersonali ad alto contenuto emotivo modificano l’attività del colon. Questi studi hanno creato un ampio filone di ricerca in ambito psicosomatico.
Ansia e depressione sono frequentemente associate a patologie intestinali infiammatorie. La loro comparsa, quando successiva a una patologia intestinale può essere interpretata come sequela della patologia internistica. Quando, invece, i sintomi psichici precedono la malattia somatica, ansia e depressione potrebbero essere letti come sintomi precoci della patologia o addirittura come una delle cause che concorre al’insorgenza della mallattia somatica.
Vissuti depressivi possono essere correlati anche alle terapie del Morbo di Crohn e ai loro effetti collaterali con significato iatrogeno. La nutrizione parentale, il sondino naso – gastrico e il gonfiore correlato alla terapia steroidea sono tutti fattori stressanti da non sottovalutare. La terapia steroidea protratta, inoltre, può essere direttamente responsabile di alterazioni psichiche, disturbi della sfera affettiva e psicosi.
Fattori psicologici sono stati ritenuti implicati nella patogenesi del Morbo di Crohn, anche se una reale associazione tra fattori psicologici, di tipo emotivo o di stress psicofisico, non è ancora stata dimostrata con certezza. Nonostante ciò, i pazienti trattati anche con psicoterapia riscontrano un maggior benessere soggettivo. Gli interventi psicosociali e la psicoterapia contribuiscono al benessere riducendo i sintomi ansiosi e depressivi, migliorando lo stato fisico generale, le capacità di rilassamento, di adattamento alla malattia e di socializzazione.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
La malattia rappresenta per tutti un evento traumatico che può rievocare contenuti rilevanti di angoscia; la modalità di reazione a tale evento reale, presunto o fantasticato, dipende da una serie di fattori, determinati a loro volta da problemi medici, sociali e psicologici quali: la malattia stessa con il suo decorso, i sintomi, le eventuali recidive, il tipo di trattamento prescritto, il grado di supporto sociale disponibile, fattori culturali e caratteristiche di personalità.
Il modo di percepirsi malato e di reagire alla malattia, è intimamente connesso con la simbolizzazione del proprio corpo e della malattia stessa. La superficie corporea, infatti, assume in sé la duplice funzione di confine: è limite dello spazio esterno e delimitazione simbolica di quello interno.
L’evento malattia e la connessa sofferenza, vengono ad alterare le coordinate dello spazio corporeo, perturbando la complessa trama che lo costituisce e lo sostanzia. Il paziente può fantasticare che un agente patogeno aggredisce il suo corpo dall’esterno, oppure sentire la propria integrità minacciata dall’interno e il disordine della malattia può essere psicologicamente confinato in una regione circoscritta del suo corpo oppure invaderlo tutto. Il paziente ansioso molto spesso riferisce al medico unicamente un ricco corteo sintomatologico (tachicardia, dispnea, palpitazioni, vertigini) e spesso, solo in una fase successiva, si rivolge allo psicologo o psicoterapeuta, in quanto attribuisce inizialmente all’evento un significato di disfunzionalità d’organo. La diagnosi riferita dal paziente rappresenta, dunque, l’intera rete di opinioni, più o meno articolate e coerenti, che egli ha di sé come persona, della situazione e del suo disagio, dei motivi che a suo parere li hanno determinati, nonché delle possibili tattiche che può aver formulato dentro si sé ed eventualmente tentato di realizzare per modificare la sua condizione. Considerare la diagnosi che il paziente ha formulato e il processo logico con cui ciò è avvenuto, sicuramente permette di arricchire qualitativamente e quantitativamente le conoscenze relative alla sua struttura psicologica e alle sue organizzazioni difensive.
In riferimento alle procedure diagnostiche operate su di sé dal paziente, possono presentarsi diverse situazioni: il paziente può fornire come “causa” della sua sofferenza di disagio uno specifico evento scatenante o una sequenza di eventi e dinamiche relazionali, presentando così una diagnosi eziopatogenetica soggettiva. In tal caso, egli comunica immediatamente quale è, a suo parere, il rimedio per fronteggiare la situazione che sta vivendo e ha semplicemente bisogno di una conferma e di un supporto. In altri casi, invece, il paziente si presenta al clinico avendo già formulato una sua ipotesi diagnostica “di copertura”. L’ansia di fondo, in questi casi, è “spostata” e nascosta nel sintomo e non realisticamente accolta come contenuto del pensiero. Compito del clinico in tal caso è aiutare il paziente a individuare dietro i sintomi il pretesto che rimanda a significati diversi, rintracciabili spesso nella vita sociale, relazionale e affettiva dell’individuo.
L’interazione tra fattori psicologico – comportamentali e salute fisica può esplicitarsi essenzialmente attraverso due direzioni.
La prima considera gli effetti di comportamenti specifici sulla salute fisica. Specifici stili di vita che espongono l’organismo ad agenti o situazioni patogene ad alto rischio per lo svilupparsi della patologia stessa: assunzione di alcolici, iperalimentazione con preferenza di alimenti ricchi di zuccheri e grassi, abitudine al fumo e/o droghe. Tali comportamenti sono di solito accentuati per fronteggiare difficoltà emozionali quali solitudine, apprensione, noia o ansia.
La seconda direzione evidenzia la correlazione esistente tra reazioni emozionali e i suoi correlati organici. Le emozioni sono costituite da un aspetto soggettivo, caratterizzato da un modo di descriverle particolare e individuale, sia da evidenti modificazioni somatiche che sottendono al sistema limbico. Dunque le reazioni emozionali rivestono un ruolo importante come fattore patogenetico.
L’arousal è l’espressione neurologica dell’alterazione omeostatica provocata da stimoli provenienti dall’ambiente esterno o interno. È una condizione temporanea del sistema nervoso, in risposta ad uno stimolo significativo e di intensità variabile, di un generale stato di eccitazione, caratterizzato da un maggiore stato attentivo-cognitivo di vigilanza e di pronta reazione agli stimoli esterni. È legato all’analisi dell’input ed è presente sia nel riflesso di orientamento sia nei processi cognitivi più complessi e di maggior durata, dove prende il nome di attenzione e vigilanza. In questo caso il fenomeno dell’attivazione – vigilanza può essere sostituito dal termine ansia. Il livello di eccitazione proprio dell’ansia può crescere d’intensità producendo quadri fenomenologici differenti: dall’ansia alla paura, allo spavento e al terrore. Da comportamenti cognitivamente orientati si giunge a risposte puramente emozionali, in cui la componente eccitatoria, oltre che innalzare l’attività corticale, giunge fino ai centri encefalici con manifestazioni somatiche e viscerali.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I disturbi d’ansia rappresentano l’area di più frequente incontro nella pratica clinica di psicologi, psicoterapeuti e medici di base. Più di un terzo dei pazienti trattati dai medici di medicina generale presenta disturbi emotivi, soprattutto ansia e depressione, diagnosticabili a livello clinico - psichiatrico. Inoltre l’ansia costituisce un’aggravante tanto subdola quanto pericolosa di ogni tipo di patologia. Subdola, perché spesso coperta e confusa con sintomatologie più facilmente obiettivabili e tradizionalmente meglio studiate ed evidenziate nella cultura medica. Pericolosa, perché può anticipare o accompagnare disturbi inevitabilmente ancora più gravi sul piano psichiatrico e può causare maggiori difficoltà di cura della patologia somatica.
I disturbi d’ansia sembrano costituire la maggior parte dei costi dell’intera salute mentale per la loro incidenza, per la loro elevata possibilità di diventare cronici, di presentarsi insieme con altri disturbi psichiatrici e non, e di complicarsi durante il loro decorso. Un altro motivo è correlato, soprattutto nei disturbi somatoformi o psicosomatici, al ricorso a indagini strumentali, inizialmente per effettuare una diagnosi differenziale e poi per la continua ricerca di rassicurazioni da parte dei pazienti.
Da sottolineare che poco più del 20% dei pazienti ansiosi viene trattato, mentre la maggior parte di essi non cerca alcun aiuto, oppure lo trova in un abuso da sostanze (nell’alcool per esempio), nei farmaci da banco o in pratiche non scientifiche.
Il sintomo ansia è importante nella pratica medica poiché costituisce una delle più comuni, anche se spesso non riconosciute, ragioni di contatto con il medico di base. Infatti, oltre ai sintomi di tipo ansioso facilmente riconoscibili, l’ansia può manifestarsi attraverso lo sviluppo di un ampio spettro di sintomi fisici che il paziente non attribuisce ad essa.
L’ansia è un affetto, per quanto sgradevole, di comune riscontro in vari momenti e situazioni della vita umana. Si esprime con vissuti soggettivi dominanti di paura, preoccupazione immotivata, ideazione monotematica su contenuti di minaccia, anticipazione apprensiva di un pericolo o di una disgrazia imminente. Gli eventi temuti possono essere estremamente improbabili o addirittura impossibili, oppure possono verificarsi, ma vengono avvertiti e temuti in modo abnorme e del tutto sproporzionato rispetto alla loro reale entità.
L’ansia può costituire una normale risposta fisiologica, sia comportamentale sia psicologica, di fronte a condizioni obiettivamente difficili o inusuali. Una risposta di tipo ansioso, in previsione di situazioni nelle quali è richiesta un’alta prestazione, è una modalità adattiva necessaria ad affrontare adeguatamente l’evento e consente l’attivazione di iniziative e comportamenti utili all’adattamento, determinando un miglioramento della performance. In quest’ottica è una normale modalità esistenziale, fondamentale per la sopravvivenza e l’evoluzione dell’individuo in quanto segnale preparatorio di attacco – fuga e spinta alla conoscenza. Un livello di tensione ottimale è utile per sviluppare e realizzare al meglio le proprie capacità, ad esempio nell’affrontare un esame, una competizione sportiva o nel parlare in pubblico.
L’ansia quindi viene considerata destrutturante o disadattiva, quindi ansia patologica, quando diviene fonte di sofferenza soggettiva e disturba, in misura più o meno notevole, il funzionamento psichico globale dell’individuo, incidendo negativamente sulla qualità di vita. Un livello eccessivo di ansia infatti determina maggiore incidenza di dimenticanze ed errori, perdita della coordinazione motoria fine, perdita di sicurezza, sentimenti di costrizione e panico.
L’ansia svolge la sua azione all’interno di tre aree principali: somatica, cognitivo – psicologica e comportamentale.
È importante poter distinguere tra ansia-tratto e ansia-stato. L’ansia-tratto costituisce una caratteristica relativamente stabile della personalità, una sorta di predisposizione all’ansia: i soggetti con ansia-tratto elevata tendono a percepire le situazioni come particolarmente minacciose e pericolose e a reagire a esse con ansia di elevata entità. Tali soggetti sono caratterizzati da una marcata reattività agli stimoli, fragilità dell’Io, una forte tendenza alla sensitività e alla colpa, per cui rispondono con ansia elevata soprattutto a quelle circostanze che rappresentano una minaccia alla propria autostima.
L’ansia-stato rappresenta invece il livello di ansietà temporaneo, per lo più in rapporto a stimoli o situazioni particolari e contingenti che costituiscono una fonte di conflitto e stress per l’individuo. L’ansia-stato si manifesta con la sensazione soggettiva di tensione, nervosismo, irritabilità e con la presenza del corteo sintomatologico proprio per l’attivazione del sistema nervoso autonomo.
L’ansia inoltre può avere un carattere “primario”, vale a dire indipendente da altri disturbi, o avere un carattere “secondario” quando appare essere un correlato o una conseguenza di altri disturbi.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I meccanismi di difesa sono delle particolari funzioni che hanno come scopo quello di proteggerci dal provare sentimenti ritenuti intollerabili.
In un articolo precedente ho illustrato i meccanismi di difesa primari, quelle difese che implicano il confine tra il mondo esterno e il Sé. In questo articolo presenterò i meccanismi di difesa secondari, di ordine superiore, che hanno a che vedere con i confini interni tra la parte di noi che vive l’esperienza e quella capace di osservare. Mentre le difese primitive operano in modo globale fondendo dimensioni cognitive, affettive e comportamentali, le difese più evolute operano trasformazioni specifiche del pensiero, del sentimento, della sensazione, del comportamento, o di una loro qualche combinazione. Come già sottolineato nel precedente articolo, tutti noi utilizziamo i meccanismi di difesa, sia primari che secondari. I problemi sorgono quando utilizziamo solo e sempre uno o due meccanismi di difesa a prescindere dalla situazione che ci si presenta.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo