In questo articolo troverete l’intervista telefonica che “Le Iene” hanno fatto ad una ragazza che soffre di ansia e attacchi di panico. Penso che le parole provenienti da una persona che prova in prima persona tutta una serie di difficoltà valgano molto di più di mille articoli teorici proposti da uno psicoterapeuta. Auguro a tutti una buona lettura. In fondo alla pagina trovate il link al sito delle Iene in cui è stata pubblicata l’intervista che segue.
“Passavo le serate a letto, al buio, guardando il vuoto, con la paura che tornasse un nuovo attacco”. Jessica Maritato, 27 anni, racconta come combatte ansia e attacchi di panico con cui convive fin da bambina. Spazio aperto per chi vuole condividere la sua storia (anche in anonimato).
Apriamo una porta su un mare grande di segnalazioni, quelle che arrivano da chi soffre di ansia e attacchi di panico. La prima a metterci letteralmente la faccia, qui sopra, è Jessica Maritato, 27 anni. Ma lo spazio è aperto anche per chi preferisce l’anonimato, come a chi vuole fare una breve intervista video. Per raccontare e condividere la propria storia, cercare e proporre soluzioni. Partiamo intanto con Jessica, che si è sottoposta alla batteria di domande per telefono.
Qual è stato il momento peggiore?
“Tra maggio e giugno del 2015. La mia giornata tipo in quel periodo era: sveglia, attacco di panico, vomito, tremore, freddo, mio padre che mi sorreggeva e mi portava alla finestra a prendere un po’ d’aria. Mi rimettevo 10 minuti nel letto ancora tremante. Quando riuscivo a tornare con la testa alla realtà, mi lavavo, mi vestivo e mi facevo accompagnare a lavoro sempre da mio padre. Passavo la giornata in catalessi, cercavo di sorridere e fingere che andasse tutto bene. Rientrata a casa, stremata, mi lasciavo andare e abbassavo le difese. E lì tornava, vigliacco, l’attacco di panico. Passavo le serate a letto, al buio, guardando il vuoto. Non leggevo più, non uscivo più, non ascoltavo più la musica e non riuscivo nemmeno a guardare un film o la televisione. La mia testa era altrove, non riuscivo a distrarmi dall’unico pensiero fisso che avevo: la paura del ritorno di un nuovo attacco di panico”.
Erano i tuoi primi attacchi?
“Sì, almeno quelli di cui ero consapevole. Il negozio dove lavoravo stava chiudendo, ero terrorizzata all’idea di perdere il lavoro. Andando in terapia ho capito dopo che il problema non era il lavoro ma qualcosa di più profondo. Ho capito anche che avevo già avuto degli attacchi di panico in passato, perfino da piccola, ma non sapevo riconoscerli”.
Più ansia o panico per te?
“L’ansia mi tiene per mano da quando sono bambina. Ogni volta che devo affrontare una cosa nuova, una situazione diversa, qualcosa che non conosco, anche un luogo nuovo per esempio, ho l’ansia. L’ansia sale e scende, ci sono momenti in cui è molto presente e altri in cui mi rendo conto che è chiusa in un cassettino della mente. Ma so che c’è. Lei c’è sempre. Gli attacchi di panico ora ho imparato a riconoscerli, a gestirli e talvolta pure a prevenirli”.
Come si manifestano? Cosa ti succede?
“L’attacco di panico, una volta che l’hai provato, lo riconosci subito. Tachicardia, sudore alle mani, tremolio, bocca secca, mancanza di respiro, agitazione. Non riesci più a parlare e non riesci nemmeno a spiegare cosa ti sta succedendo e perché. Soprattutto, ti sembra di morire. Chi ha provato un attacco di panico sa che la sensazione che prevale su tutto: ‘Sto morendo, ora’. È la sensazione più brutta che abbia mai provato. È per questo che, quando lo provi una volta, poi sei terrorizzata che possa ripetersi”.
Come li combatti?
“Li combatto affrontandoli. Non ho mai fatto un giorno di malattia per questo, piuttosto mi tenevo tutto dentro ed esplodevo dopo. Avevo paura che se l’avessi fatto una volta, l’avrei fatto sempre. Avevo già rinunciato a uscire con il mio fidanzato o con gli amici e non potevo isolarmi totalmente dalla vita. Ora, rispetto a 3 anni fa, ho maggiore consapevolezza".
Cioè?
"So che non morirò, so che mi sentirò stanca e debilitata, ma passerà. Vado avanti a braccetto con l’ansia, a volte è talmente pesante che mi trascina lei, altre volte è piccola e leggera. Cerco di affrontarla sempre, sempre, sempre. La mia più grande preoccupazione era il giudizio degli altri, ho smesso di preoccuparmi di quello, e mi sono tolta il 50% del problema”.
Come è cambiata la tua vita?
“A cambiarmi è stata la terapia, con l’ansia credo di esserci nata quindi non riesco a fare paragoni. Non c’è un prima e un dopo l’ansia. La terapia, invece, ti cambia, in meglio. Ti aiuta a conoscerti perché c’è sempre, o quasi sempre, un perché arrivi ad avere un attacco di panico. A volte è un perché che nemmeno ti immagini, a volte sono tanti perché, altre ancora sono motivi che già conoscevi ma che nascondevi sotto il tappeto”.
Ti senti capita?
“Assolutamente no. Sicuramente le persone a me più care provano a capirmi e a starmi vicino, ma non capiscono realmente cosa e come sia convivere con l’ansia. Credo sia impossibile capire cosa vuol dire avere un attacco di panico e vivere perennemente in apnea. O sei cosi o non lo sei. È un po’ come quando si parla di depressione e le persone dicono: ma ha tutto dalla vita, sta bene, ha una bella famiglia, ha un buon lavoro, fa una bella vita… purtroppo queste cose non si controllano, non si decidono, non le cerchiamo e non le vogliamo, come una qualsiasi malattia che colpisce il fisico”.
Cosa ti dà più fastidio nell’atteggiamento degli altri?
“Chi ti dice: a me sembra che stai bene, sei allegra, scherzi sempre. Dovrei indossare una t-shirt con scritto “Soffro d’ansia”? Ultimamente va pure di moda dire: “Oddio, ho l’ansia”. Spesso confondiamo le sensazioni: l’agitazione, l’emozione, la trepidazione dell’attesa con l’ansia. È uno dei motivi per cui molti sottovalutano il problema: credono si sapere di cosa si parla, invece è proprio un’altra cosa”.
Ti senti mai “debole” o “fifona”?
“Mi sentivo molto debole, fifona, sbagliata, esagerata, una che fa del vittimismo. La terapia mi ha aiutata ad accettarmi. Io sono così. Fifona e debole? Sì, agli occhi di qualcuno sicuramente. Ora, però, mi sento forte. So solo io quanta fatica faccio ogni volta che vado dalla psicologa, so solo io come ne esco distrutta. Alla fine di ogni seduta sembra che mi sia passato sopra un tir, mi sento di aver fatto una centrifuga in una mega lavatrice o come se avessi camminato nuda in piazza Duomo. So solo io quanto è difficile affrontare le mie paura, le mie ansie, arrivare a fine giornata con fatica, ma arrivarci avendo fatto quello che mi ero prefissata”.
Meglio i farmaci, lo psicologo o lo psichiatra? Oppure fare da sé, aiutata magari da familiari/amici/compagno?
“Per me l’unica cosa che aiuta davvero è la terapia. Lo psicologo e, se necessario, terapie farmacologiche. Solo lo psichiatra può prescriverti però dei medicinali. Nel 2015 ho preso anche dei farmaci, per 6 mesi, e non mi hanno mai dato né problemi né dipendenza. Lo psicologo purtroppo è una figura sottovalutata”.
Perché?
“Andarci non può essere ancora un tabù nel 2018. È assurdo associare il fatto di andare da uno psicologo a una debolezza o a un capriccio oppure a chissà a quale grave malattia mentale. È vero: costa, ma ci luoghi in cui puoi cercare aiuto da un professionista gratuitamente. Il costo è relativo, dipende sempre dalle priorità di ognuno. Mi hanno fatto i conti tasca milioni di volte: ‘Ah, ma tu puoi’. No, io voglio, punto. Io voglio stare meglio, voglio avere il controllo delle mie emozioni e della mia vita. Questa è la mia priorità".
Hai fatto rinunce per continuare con la terapia?
"L’ultimo modello di iPhone, la cena fuori, la serata a ballare, le scarpe nuove, le unghie laccate, i capelli perfetti, le ciglia finte, la macchina belle e potente… non sono, al momento, una mia priorità. Vorrei vivere in un Paese in cui andare dallo psicologo sia normale, come dire ‘Oggi vado a fare la ceretta’! Vorrei vivere un Paese che mette a disposizione un servizio gratuito per tutti, un servizio che funzioni però! Se non andassi in terapia e risparmiassi questi soldi, ma non riuscissi a uscire di casa come starei? So che tornerei come nel 2015 quando non mettevo piede fuori casa, se non per andare a lavoro. Sul letto, senza appetito, con un nodo in gola e uno nello stomaco, con gli occhi gonfi, le mani tremanti e sudate: cosa me ne farei di quei soldi risparmiati?”
Problemi con il lavoro per i tuoi disturbi?
“Lavoro per un’azienda di abbigliamento da 6 anni: come commessa in negozio per 6 mesi e gli altri 6 nello showroom aziendale, in un ambiente molto tranquillo, quasi familiare. Non ho mai avuto problemi. Ho dei colleghi eccezionali, comprensivi, gentili e sempre pronti a sostenermi. Non mi sono mai sentita giudicata da loro, non mi hanno mai detto qualcosa che mi ha fatto sentire sciocca e fifona. Mi sono sempre stati accanto come potevano, con una parola, un abbraccio o un semplice sorriso d’amore”.
Ne hai parlato in famiglia o con il tuo compagno?
“Ne ho parlato e ne parlo tuttora, sempre. La mia famiglia e il mio compagno sanno tutto e hanno assistito a ogni mio regresso e progresso. Ne ho parlato apertamente nel 2015, o meglio, è stato mio padre a capire che c’era qualcosa che non andava e mi ha spinta ad andare dalla psicologa. Mio padre è una persona semplice che non sa nemmeno cosa significhi andare in terapia e che forse nel passato storceva il naso quando si parlava del mestiere dello psicologo. Eppure si è sentito talmente tanto impotente in quel periodo che non sapeva a chi o a cosa aggrapparsi e mi ha indirizzata, inconsapevolmente, nella direzione giusta”.
Fa bene parlarne?
“Sì, fa bene parlarne, ma non sempre e a chiunque. All’inizio non ne parlavo con nessuno, poi ho pensato fosse anche giusto spiegare cosa mi stesse succedendo. Più che altro per ‘giustificare’ le mie assenze e per avere un po’ di conforto. Non sono stata capita, anzi sono stata giudicata in malo modo. Non è bello sentirsi sminuire e sentirsi dare della capricciosa, soprattutto se sai quanto ti sia costato aprirti. Quindi sì, fa bene parlarne con chi vuole ascoltare, con chi sa mettersi nei panni di un altro".
Chi ti ha capita di più?
“Non per forza gli amici di una vita. Ho trovato più comprensione in persone che conoscevo da poco ma con cui c’è stata subito complicità. Ho trovato più conforto in uno sguardo regalatomi da un conoscente che in frasi dette dagli ‘amici’. Ho trovato più gentilezza ed empatia da persone che vedevo una volta al mese, rispetto a chi vedevo 5 giorni a settimana”.
Prova a spiegare cosa sono l’ansia e il panico a chi non ne soffre?
“Credo sia impossibile da spiegare e impossibile da comprendere se non lo provi sulla tua pelle. A volte è difficile anche spiegarlo a me stessa. Quando sto bene, sono spensierata e felice, mi domando: ma perché poi torna? Ma perché non riesco a cacciarla per sempre? Ma perché, se riesco a stare così bene, poi deve riaprirsi quel maledetto cassetto e riportarmi giù nell’abisso dell’ansia?”.
Sono un qualcosa di più nella vita rispetto agli altri o un qualcosa di cui ti libereresti subito?
“Ovviamente me ne libererei subito. Non vorrei essere così, chi vorrebbe essere costantemente sul punto di star male? Chi lo sceglierebbe? Certo, sono fiera del percorso che ho fatto e sto facendo: ho imparato tantissime cose e sono una persona nuova. So però che quest’ansia come sottofondo della mia vita ci sarà sempre: se potessi scegliere me ne libererei subito”.
Cosa consigli a chi ne soffre come te?
“Consiglio di farsi aiutare da un professionista. Consiglio di rinunciare a qualcosa, che sia in termini di denaro o di tempo, e di chiedere aiuto. Consiglio di non abbattersi se non si riesce a trovare un terapeuta adatto alla propria persona e alle proprie esigenze, continuate a cercare chi può aiutarvi. Consiglio di non vergognarsi, di non chiudersi a riccio, di non isolarsi”.
E a chi vive accanto a chi ne soffre?
“A chi è accanto ad una persona che soffre di ansia e attacchi di panico consiglio di farla riflettere sulla possibilità di andare in terapia. Poi consiglio di non strafare. Non sempre parlare è la soluzione migliore, non sempre uscire e distrarsi è la cosa migliore da fare. A volte una persona che soffre d’ansia ha solo bisogno di un abbraccio, un sorriso e silenzio. Molto spesso dopo un attacco di panico ci si sente debilitati e stanchi. Star vicino ad una persona vuol dire anche sedersi di fianco a lei e lasciarla piangere mentre si guarda un film. Non domandate sempre: vuoi parlare? stai bene? com’è andata oggi? Cercate di trasmettere a questa persona che ci siete, sempre, ma non assillatela. Sapere che c’è qualcuno che ci ascolta o ci abbraccia è già una grande cosa. Poi c’è una cosa che non sopporto, da non fare mai”.
Quale?
“Chiedere sempre ‘perché?’. Perché hai avuto un attacco di panico? ‘Non lo so’. Perché oggi ti è capitato e ieri no, visto che hai fatto la stessa cosa? ‘Ma che domanda del cazzo! Nuovamente, non lo so!”. Perché non riesci a stare tranquilla? ‘Per l’ennesima volta, non lo so… Ma se tu lo sai fammi un fischio’. Perché te le vai a cercare? ‘Cosa mi cerco? L’ansia? Sono masochista?’. Insomma, cercate di far capire che ci siete ma non tartassate la persona che non sta bene. A volte basta solo far entrare un po' di luce".
Il link all’articolo originale è:
Intervista delle Iene ad una ragazza che soffre di ansia e attacchi di panico
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo