I meccanismi di difesa sono delle particolari funzioni che hanno come scopo quello di proteggerci dal provare sentimenti ritenuti intollerabili.
Le principali categorie diagnostiche utilizzate dagli psicoterapeuti ad orientamento dinamico per definire i tipi di personalità si riferiscono implicitamente all’azione persistente nell’individuo di una difesa o costellazione di difese. Un’etichetta diagnostica è dunque una sorta di abbreviazione che indica il modello difensivo abituale di una persona.
Quelle che negli adulti maturi finiamo col chiamare difese si strutturano inizialmente come modi globali, inevitabili, sani e del tutto adattivi di percepire il mondo. Freud fu il primo a osservare e definire tali processi e la scelta del termine “difesa” riflette almeno due aspetti del suo pensiero. In primo luogo Freud era appassionato di metafore militari. In secondo luogo quando si imbatté per la prima volta negli esempi più vistosi e memorabili di quelle che oggi chiamiamo difese, osservò l’attività di questi processi nella loro funzione difensiva. Le persone facevano di tutto per evitare di rivivere quello che temevano sarebbe stato un dolore insopportabile.
Sfortunatamente l’idea che le difese fossero in qualche modo qualcosa di negativo, per natura disadattive, si diffuse tra il pubblico profano al punto che definire qualcuno “difensivo” è universalmente inteso come una critica.
In realtà i fenomeni a cui ci riferiamo come difese hanno molte funzioni positive. Si manifestano come adattamenti sani e creativi e continuano a operare in senso adattivo per tutta la vita. La persona che si comporta in modo difensivo in genere cerca inconsciamente di ottenere uno o entrambi i seguenti obiettivi:
1) evitare o comunque gestire qualche sentimento intenso e minaccioso, di solito l’ansia e l’angoscia;
2) mantenere l’autostima.
Tutti noi abbiamo alcune difese preferenziali che sono diventate parte integrante del nostro stile individuale di confronto con le dimensioni problematiche. Questo ricorso preferenziale e automatico a una particolare difesa o serie di difese è il risultato di un’interazione complessa tra almeno quattro fattori:
1) il temperamento costituzionale;
2) la natura dei disagi subiti nella prima infanzia;
3) le difese presentate dai genitori o da altre figure significative;
4) le conseguenze sperimentate dell’uso di particolari difese.
Convenzionalmente gli autori psicoanalitici tendono a distinguere tra difese primarie e secondarie. Le difese primarie, o primitive, sono quelle che implicano il confine tra il mondo esterno e il Sé, mentre le difese più evolute, quelle definite secondarie, di ordine superiore, hanno a che vedere con i confini interni tra la parte di noi che vive l’esperienza e quella capace di osservare. Tutti noi utilizziamo i meccanismi di difesa, sia primari che secondari. I problemi sorgono quando utilizziamo solo e sempre uno o due meccanismi di difesa a prescindere dalla situazione che ci si presenta.
Di seguito illustrerò i processi difensivi primari. Ci si renderà presto conto che le difese primitive sono semplicemente i modi in cui noi riteniamo che il bambino piccolo percepisca naturalmente il mondo.
I processi difensivi primari sono:
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Nella nostra quotidianità, nelle nostre scelte e decisioni, all’interno delle nostre relazioni ogni giorno ci confrontiamo in modo più o meno consapevole con stereotipi sociali, pregiudizi, miti, errate convinzioni che inevitabilmente, pur di conformarci a dei canoni sociali, ci ingabbiano in modalità relazionali e scelte di vita non funzionali al nostro benessere. Quando si tratta di prendersi cura della propria salute fisica generalmente non ci adattiamo a particolari stereotipi per cui, se non stiamo bene, ci rivolgiamo al nostro medico di fiducia il quale ci farà fare degli esami di approfondimento oppure ci invierà ad uno specialista del settore. Le cose cambiano quando a stare male non è il nostro corpo ma la nostra psiche. Quando ci troviamo nella condizione di sottovalutare i nostri sintomi psicologici (stress, ansia, umore vacillante, manifestazioni psicosomatiche, difficoltà decisionali, conflitti relazionali, …) stiamo aderendo ad uno dei miti sopra citati.
Il basso tasso di persone che cercano cure psicologiche è da attribuire allo stigma e alle tante leggende metropolitane connesse alla figura dello psicoterapeuta e alla psicoterapia. Senza dubbio il cinema, la letteratura e la televisione per anni hanno contribuito alla creazione di queste false leggende. In questo articolo vorrei provare a riflettere su alcuni pregiudizi che negli anni si sono formati sulla psicoterapia psicoanalitica e che, facendo ormai parte del sapere comune, a volte sono molto difficili da superare e impediscono a molte persone di chiedere aiuto ad un professionista.
In psicoterapia ci vanno i “pazzi”: la scelta di percorrere un percorso di psicoterapia a mio avviso è una scelta per persone intelligenti che con coraggio scelgono di impegnarsi per migliorare la propria vita, individuare i propri obiettivi e raggiungerli. Come diceva Albert Einstein “follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”.
La psicoterapia è costosa: la psicoterapia è un investimento su di sé. È molto più costoso, non solo in termini economici ma soprattutto in termini psichici non affrontare un problema piuttosto che affrontarlo. Ma vorrei chiarire questo punto con qualche esempio in modo da mettere in luce come una psicoterapia, grazie ai suoi effetti durevoli, possa fare risparmiare nel tempo risorse quali il denaro o altro, prevenendo dal fare scelte sbagliate. Pensiamo ad un uomo che, grazie ad un percorso psicoterapeutico, riesce a modificare alcuni suoi atteggiamenti che lo avrebbero portato a dover divorziare dalla moglie (non volendolo) e a doversi allontanare dai suoi figli; la psicoterapia in questo caso non solo permette a quest’uomo di vivere in modo pieno la famiglia, evitando disagi e traumi in tutti i componenti della famiglia stessa, ma evita anche tutta una serie di spese (avvocati, alimenti alla ex moglie, assegni di mantenimento ai figli) che inevitabilmente quest’uomo avrebbe dovuto sostenere. Oppure pensiamo a cosa può “guadagnare” chi, dopo un percorso di psicoterapia, riesce ad affrontare la vita senza essere paralizzato dall’ansia o da attacchi di panico in prossimità di occasioni importanti per il proprio futuro lavorativo, come ad esempio esami universitari o colloqui di lavoro, eventi davanti ai quali prima o si bloccava o metteva in atto dei comportamenti volti ad evitarli. Vista in questi termini la terapia ha un valore molto alto, che va oltre il denaro speso per investire su di sé.
La psicoterapia dura troppo tempo: anche questo è un pregiudizio antico collegato all’idea sbagliata che chi rimane a lungo in psicoterapia lo fa perché non ne trae beneficio. La verità è tutto l’opposto. Le persone, quando ne hanno l’opportunità, tendono a restare più a lungo in un trattamento analitico non perché non stanno ricevendo alcun aiuto, ma proprio perché lo stanno ricevendo.
Scavare il passato non sarà utile: riportare alla memoria cose complicate e dolorose vissute nel passato può, naturalmente, essere difficile. Farlo, assieme al terapeuta, permetterà di vedere questi eventi in un’ottica differente, al fine di avere una comprensione chiara del perché gli eventi passati influenzano le decisioni nel presente.
La terapia ti fa provare colpa e vergogna: gli psicoterapeuti tengono ai loro pazienti, sono senza pregiudizi, sono compassionevoli e comprensivi, il loro scopo primario é aiutare gli individui a prendere da soli le loro decisioni. I sentimenti di colpa e vergogna già presenti sono senza dubbio esplorati all’interno di una psicoterapia, ma non sono di certo causati o fatti emergere intenzionalmente dal terapeuta.
Lo psicoterapeuta attribuisce tutti i problemi ai genitori o alle esperienze infantili: esplorare le proprie esperienze infantili e gli eventi significativi che hanno inciso sulla propria vita e su come ci siamo evoluti come persone è sicuramente una componente importante della psicoterapia. Informazioni che riguardano il proprio contesto familiare e gli eventi significativi di vita aiutano a capire il nostro modo di percepire e sentire. Portare la persona a guardarsi indietro è finalizzato a capire meglio il presente e questa comprensione e consapevolezza può essere punto di partenza per fare cambiamenti positivi per il futuro.
Gli psicologi semplicemente ascoltano e fanno sfogare, quindi perché pagare qualcuno solo perché ascolti?: all’inizio del percorso di terapia lo psicoterapeuta chiede di descrivere il problema che vi ha portato nel suo studio, ma l’ascolto è solo il punto di partenza. Potrà anche raccogliere informazioni rilevanti sulla vita passata, così come la storia dei problemi e di altre importanti aree della vita, ed i modi in cui si è cercato di affrontare i momenti difficili. La psicoterapia è tipicamente un processo interattivo e collaborativo, basato sul dialogo e sull’impegno attivo del paziente. Paziente e psicoterapeuta identificano insieme i problemi, le loro origini, impostano obiettivi, camminano fianco a fianco lungo il percorso terapeutico e monitorano i progressi.
Parlare con i familiari o con gli amici è efficace quanto andare dallo psicoterapeuta: il sostegno di familiari e amici è di fondamentale importanza quando si sta attraversando un periodo difficile. Ma quello che è in grado di offrire uno psicoterapeuta è molto di più. Gli psicoterapeuti hanno anni di istruzione specializzata, formazione ed esperienza che li rendono professionisti esperti nella comprensione e nel trattamento di problemi complessi. É quindi molto più di un “solo parlare e ascoltare”. Gli psicoterapeuti sono in grado di riconoscere modelli di pensiero e comportamento in modo oggettivo, che le persone più vicine a voi possono aver smesso di notare o di cui possono non essersi mai accorte. Inoltre lo psicoterapeuta può apparentemente offrire commenti o osservazioni simili a quelle che fanno le persone a voi vicine nella vita quotidiana, ma il loro aiuto può essere efficace per la tempistica con cui vengono fatte tali osservazioni, per la possibilità di mettere a fuoco il problema e le dinamiche connesse e per il vissuto di fiducia nella posizione neutrale del professionista. Un’altra importante considerazione da fare è che con il proprio psicoterapeuta è molto più facile parlare in libertà e in modo onesto perché la relazione professionale si fonda sulla riservatezza, per cui non si ha alcuna preoccupazione che qualcuno venga a sapere quello di cui si è discusso. Non è raro che le persone spesso raccontino ai loro psicoterapeuti cose che non si sono mai sentiti di rivelare a nessuno.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
La parola tanatofobia deriva dal greco thanatos che significa morte, e phobos che significa paura, letteralmente “paura della morte”. La tanatofobia, colpisce milioni di persone in tutto il mondo. In alcuni individui può generare ansia e/o pensieri ossessivi. Più precisamente, la tanatofobia è la paura della morte e/o della propria mortalità, mentre la paura delle persone che muoiono o delle cose morte è conosciuta come "necrofobia", che è un concetto leggermente diverso. La nostra esistenza è sempre adombrata dalla consapevolezza che cresceremo, giungeremo a maturazione finché, inevitabilmente, avvizziremo e moriremo.
Per alcuni la paura della morte si manifesta solo in modo indiretto, vuoi come un’inquietudine generalizzata o mascherata sotto le sembianze di un diverso sintomo psicologico; altri individui sperimentano un flusso esplicito e cosciente di angoscia nei confronti della morte; e per altri ancora la paura della morte si manifesta nell’esplosione di un terrore che impedisce qualsiasi felicità e realizzazione.
L’angoscia riguardo alla morte aumenta e diminuisce durante il ciclo vitale. I bambini fin da piccoli non possono fare a meno di notare il manifestarsi intermittente della mortalità che li circonda (foglie, insetti e animali domestici morti, nonni che scompaiono). Poi, dai sei anni fino alla pubertà la paura della morte solitamente rimane in secondo piano per erompere con tutta la sua forza durante l’adolescenza. Gli adolescenti spesso sono assillati dalla morte e alcuni di loro prendono in considerazione l’idea del suicidio. Molti giovani di quell’età possono rispondere all’angoscia di morte diventando maestri e dispensatori di morte nella vita virtuale, grazie ai videogiochi. Altri sfidano la morte con umorismo macabro e canzoni in cui viene schernita, o guardando film horror con gli amici. Altri adolescenti sfidano la morte affrontando rischi temerari. Con il passare degli anni le preoccupazioni adolescenziali nei confronti della morte vengono spinte da parte dai due compiti principali dell’esistenza di un giovane adulto: dedicarsi alla carriera e mettere su famiglia. Tre decadi più tardi, quando i figli si allontanano da casa e ci si avvicina alla pensione, si viene assaliti dalla crisi di mezza età e l’angoscia della morte erompe con tutta la sua forza.
Sin dall’alba dei tempi la morte ha avuto un ruolo centrale nelle dottrine religiose e nel pensiero filosofico. Secondo Epicuro, filosofo greco nato nel 341 a.C., c’era un solo obiettivo adeguato per la filosofia: alleviare la miseria umana causata dalla nostra onnipresente paura della morte. Secondo questo filosofo, il cui nome è legato alla corrente di pensiero dell’epicureismo, la visione spaventosa della morte interferiva con il godimento della vita e intaccava ogni forma di piacere. Fa parte del genio di Epicuro aver anticipato la visione contemporanea dell’inconscio: fu lui a evidenziare infatti che le preoccupazioni di morte non sono consapevoli per la maggior parte degli individui, ma devono essere dedotte da manifestazioni sotto mentite spoglie. Epicuro formulò una serie di argomentazioni per tentare di alleviare l’angoscia della morte. Ne propongo tre, a mio avviso preziose all’interno di un lavoro di psicoterapia.
La prima argomentazione è quella della mortalità dell’anima. Secondo Epicuro l’anima è mortale e perisce assieme al corpo. Se siamo mortali e l’anima non ci sopravvive, allora non abbiamo nulla da temere, non avremo coscienza né rimpianti.
Nella seconda argomentazione Epicuro ipotizza che la morte per noi non sia nulla, in quanto l’anima è mortale e si disperde con la morte. Quel che è disperso non percepisce, e qualsiasi cosa non percepita per noi è il nulla. In altre parole: dove sono io, non è la morte, dove è la morte non sono io. Epicuro affermava: perché temere la morte se noi non la possiamo mai percepire?
La terza argomentazione di Epicuro sostiene che la nostra condizione di non essere dopo la morte è la stessa nella quale ci trovavamo prima della nascita. Credo sia confortante pensare che le due condizioni del non essere, il tempo che precede la nostra nascita e quello che segue la nostra morte, siano identiche e che noi abbiamo tanta paura della seconda e così poca preoccupazione riguardo alla prima.
Il dover affrontare l’idea della morte non porta necessariamente alla disperazione e non priva la vita di qualsiasi scopo. Al contrario può essere una consapevolezza che conduce ad una vita più piena. Secondo Irvin D. Yalom, psichiatra e psicoterapeuta americano di fama mondiale, anche se la fisicità della morte ci distrugge, l’idea della morte ci salva. Secondo l’autore alcune esperienze, che lui chiama esperienze di risveglio, ci fanno sintonizzare con il semplice fatto che le cose sono, che noi siamo, con il “miracolo dell’essere” in sé. In questa modalità di pensiero non solo siamo più consapevoli dell’esistenza, della mortalità e delle altre caratteristiche immutabili della vita, ma anche più pronti a operare cambiamenti significativi. Molti resoconti di cambiamenti significativi e durevoli originati da un confronto diretto con la morte sono una prova a sostegno di questa opinione. Secondo Yalom i catalizzatori principali per un’esperienza di risveglio sono eventi pressanti dell’esistenza, come il dolore per la perdita di qualcuno che si ama, una malattia che mette a rischio la vita, la rottura di una relazione intima, alcune pietre miliari della nostra esistenza come un compleanno importante (cinquanta, sessanta, settant’anni), traumi dovuti a eventi tragici quali un incendio o una violenza o una rapina, oppure il figli che lasciano la casa, la perdita di un lavoro, l’andare in pensione.
Molto spesso chi ha paura di morire manifesta i sintomi di ansia intensa al solo pensiero della morte. Paura intensa, tensione, tremolio, pianto, disperazione. Sono questi i sintomi più comuni per chi ha questo tipo di paura. Questo tipo di paura è molto più frequente nelle persone con ansia, depressione e ipocondria. Spesso questa forte paura ha alla base un significato più nascosto. Le cause sono da attribuire ad un ricordo o un trauma che ha messo in discussione il proprio rapporto con la morte. Per esempio si può sviluppare in persone che hanno perso un genitore durante l’infanzia.
Le paure più legate alla tanatologia in cui si manifesta eccessiva ansia sono: la paura di morire da un momento all’altro, la paura di morire di parto, la paura di morire di infarto, la paura di morire di notte, la paura di morire giovani o la paura di morire dopo un lutto.
Il trattamento più efficace per liberarsi della tanatofobia è senza ombra di dubbio la psicoterapia psicodinamica. La terapia psicologica, individuale o familiare, mira a comprendere le cause sottostanti la fobia e ad individuare i meccanismi di pensiero che innescano la reazione fobica e a sostituirli con schemi di pensiero e di comportamento più funzionali. Essa, inoltre, aiuta anche a capire come superare l'ansia ed affrontare la paura della morte.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Imparare ad accettare la diagnosi di una malattia cronica come il diabete significa dover riorganizzare la propria vita (e quella di chi ci sta vicino) tenendo conto di un limite personale: questo processo può essere doloroso e richiede del tempo per elaborare la notizia e reagire alla malattia in modo attivo e consapevole.
L'atteggiamento del paziente verso il diabete è fondamentale e può fare la differenza. Più ci si informa, si inquadra bene la situazione, si è coinvolti attivamente per reagire e più si riuscirà a tenerlo sotto controllo, pur tra alti e bassi, momenti di sconforto e momenti in cui l'individuo si sentirà soddisfatto delle sue piccole conquiste quotidiane: è una sfida che vale la pena di accettare come investimento per la salute futura: tenere sotto controllo il diabete significa proteggersi dalle complicazioni, anche quando l’assenza di sintomi fa pensare il contrario.
Sono state osservate alcune fasi nel processo di accettazione attiva della condizione diabete: rifiuto, ribellione, compromesso, depressione, accettazione attiva. (Da notare che queste fasi sono le stesse riscontrate in tutte le malattie croniche come le cardiopatie o il cancro).
Spesso, all’esordio del diabete, ci sono lo shock e il diniego della nuova realtà. Ci si comporta, cioè, come se la sindrome non ci fosse e si nota un rifiuto della terapia.
Una seconda fase può essere quella di ribellione: “Perché doveva capitare proprio a me?” “Perché al mio bambino?” “Che cosa ho fatto di male?”.
La terza fase è quella di patteggiamento e accettazione parziale della realtà: si applicano alcuni suggerimenti terapeutici, altri no. È ancora in atto la tendenza a negare la condizione diabete e il non seguire una data prescrizione terapeutica costituisce un tentativo di fuga dalla realtà.
A questo punto può profilarsi una fase di depressione che spesso contiene contenuti di speranza. Questa fase può manifestarsi, sia con un atteggiamento di pessimismo, di sfiducia in sé, di isolamento, sia con atteggiamenti di irascibilità e di aggressività verso tutto e verso tutti.
È importante a questo punto un sostegno psicologico che può essere trovato all'interno della famiglia o anche in professionisti esterni che possono fornire, grazie ai gruppi di discussione, ad incontri di sostegno psicologico o psicoterapie, la liberalizzazione delle proprie ansie per lo più dovute a pregiudizi o a ignoranza.
In questa fase, infatti, i minimi particolari possono avere per la persona una importanza enorme: le parole del medico, degli infermieri, dei familiari assumono una notevole rilevanza e possono diventare motivo esagerato di speranza o di scoraggiamento.
L’ultima fase è quella dell’accettazione attiva del diabete che diventa il “mio diabete”, cioè un modo di vivere, uno stato di salute condizionato e non un concetto generico e minaccioso sul quale non si può esercitare alcun controllo.
Come risultato si ottiene un buon equilibrio metabolico e quindi una prevenzione delle complicanze, attraverso l’integrazione armonica con l’equipe curante e l’adeguamento al regime terapeutico che viene così inserito negli schemi di comportamento quotidiani.
Tale processo, sebbene indichi una crescita, è dinamico e non lineare, cioè non impone un passaggio da una fase all’altra nell’ordine in cui sono state descritte, né suggerisce che una volta arrivati alla fase di accettazione attiva non ci possano essere battute di arresto o ritorni a fasi precedenti.
È, quindi, molto importante partecipare ad attività di educazione sanitaria e sostegno psicologico, corsi di informazione e formazione, gruppi di discussione con altri che vivono la stessa condizione e altre iniziative per il miglioramento dell’immagine e dello status civile e sociale del diabetico, per una maggiore compliance terapeutica, per prevenire rischi e complicazioni.
Va posta una particolare attenzione ai casi in cui ad avere il diabete è un bambino. Il diabete mellito nelle sue varie forme è la più frequente malattia metabolica dell’età evolutiva. In tale fascia di età la forma più diffusa è quella di tipo 1 o insulino-dipendente (DMID).
Dal punto di vista psicologico la comunicazione della diagnosi rappresenta un momento difficile per il bambino e i suoi genitori, come anche la gestione quotidiana della malattia che provoca ansie nella famiglia sconvolgendo gli equilibri relazionali e affettivi preesistenti e comportando uno stravolgimento, almeno iniziale, delle abitudini quotidiane.
I risultati di alcune ricerche scientifiche indicano che i bambini con diabete di tipo 1 sono a rischio di problemi psicologici di adattamento durante le fasi iniziali della malattia. Le visite, i prelievi e le cure rappresentano esperienze che possono alterare la formazione della fiducia di base necessaria per la futura evoluzione dei soggetti diabetici. Per i genitori stessi, la fragilità del loro bambino e la sua immaturità affettiva rendono l’esordio della malattia drammatico.
A livello psicologico diverse sono le reazioni riscontrate nei bambini e nei loro genitori.
Ferita narcisistica: la malattia viene sentita come una minaccia. Il bambino malato e i suoi genitori vivono la malattia come un pericolo della propria integrità psico-fisica. La malattia rappresenta un’esperienza di perdita per i genitori e per il figlio, un attacco al senso di onnipotenza della madre nel soddisfare tutte le esigenze del bambino e, soprattutto, nel difenderlo dagli eventi negativi. Nei genitori si sviluppano forti sensi di colpa e responsabilità. Il potenziale disagio psichico è connesso anche con l’età del bambino al momento dell’insorgenza del diabete. La percezione della gravità e della cronicità della malattia è infatti connessa con lo sviluppo psicologico e fisico del bambino stesso.
Reazione depressiva: ansia e senso di impossibilità di azione e conseguente inadeguatezza. Queste reazioni sono più facilmente osservabili nei genitori. Spesso essi si vergognano inconsapevolmente della condizione di malattia del figlio, sentono le limitazioni di vita connesse con il decorso della malattia cronica, amplificano le possibili complicanze future del diabete. Nei bambini, invece, si possono osservare un calo della prestazione scolastica, una maggiore irritabilità generalizzata, oppure l’insorgere di atteggiamenti regressivi nei confronti dei genitori e una richiesta di iperprotettività.
Atteggiamento di rifiuto e negazione: tale atteggiamento, molto pericoloso, consiste nel negare o banalizzare la malattia.
Atteggiamento dipendente: il bambino dipende dai genitori in tutto, quindi anche nella gestione della sua malattia. Intorno ai 10 anni, invece, può diventare autonomo nel controllo e assunzione della terapia e i genitori ricoprono semplicemente il ruolo di supervisori. Se però i genitori sono iperprotettivi, non sostenendo il figlio a raggiungere l’autonomia, si creerà un rapporto di totale dipendenza e passività del soggetto malato in tutti gli ambiti di vita e non solo in relazione alla malattia stessa.
Atteggiamento perfezionista e ossessivo: consiste in un atteggiamento eccessivamente preciso, ordinato, scrupoloso nel seguire le indicazioni terapeutiche. Il diabete viene curato in modo ossessivo, non lasciando niente al caso.
Il vissuto di malattia del bambino è strettamente condizionato da quello di familiari, genitori e parenti.
L'atteggiamento iperprotettivo dei genitori verso il figlio diabetico costituisce un fattore aggravante per il normale sviluppo psicologico del bambino: esso provoca spesso una condizione di immaturità affettiva e un difficile raggiungimento dell’autonomia dalle figure genitoriali e del sentimento d’identità personale.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
La transizione alla genitorialità è caratterizzata da un sensibile aumento della vulnerabilità psicologica. Nel periodo perinatale, in particolare, i tassi di incidenza dei disturbi affettivi, sia nelle madri che nei padri, aumentano di due o tre volte rispetto alla media della popolazione generale.
Durante la gravidanza e l’infanzia della prole un compito fondamentale del padre è garantire le condizioni perché la relazione tra madre e bambino si sviluppi e si mantenga in modo adeguato. Questo compito viene assolto in primo luogo occupandosi dei problemi di ordine pratico.
Un’altra funzione maschile di grande importanza, solo recentemente oggetto di ricerche, è quella di proteggere la propria compagna nei periodi in cui è maggiormente esposta a condizioni di potenziale pericolo e a problemi fisici e emotivi. Questi momenti cruciali, nel ciclo di vitale di una famiglia, sono fondamentalmente due: il primo è quello relativo alla gravidanza e ai primi mesi dopo il parto, il secondo coincide con l’adolescenza e l’emancipazione dei figli.
Nel periodo perinatale quindi,un padre troppo preoccupato, ansioso o depresso può rappresentare uno svantaggio per l’equilibrio emozionale della compagna e una minaccia per il buon andamento della relazione tra madre e bambino.
Fino ad poco tempo fa ci si era focalizzati soltanto sul rischio di depressione post partum per la madre, dimenticando però che la gravidanza è un periodo di profonde metamorfosi in cui si possono verificare due depressioni, quella materna ma anche quella paterna, dal momento in cui non nasce solo un figlio, ma anche una madre e un padre.
Fino al secolo scorso il padre come oggetto di studio è stato trascurato. I motivi possono essere legati alla scarsa disponibilità dei padri a partecipare alle ricerche (perché riluttanti a rivelare i propri problemi emotivi), alla minore incidenza e alla diversa espressione della depressione nel maschio, alla propensione dei medici a sottostimare questa patologia (ritenendo la gravidanza e il parto problematiche che coinvolgono solo le donne).
Recentemente, però, l’interesse scientifico per questo argomento è aumentato e le ricerche hanno evidenziato che anche i padri possono soffrire di disturbi affettivi relativi al periodo della gravidanza e alla nascita del bambino, con una incidenza del 10% circa, minore comunque dell’incidenza della depressione post-partum materna.
Il termine Depressione Perinatale Paterna indica la manifestazione nel padre di una sintomatologia depressiva nel periodo che va dall’inizio della gravidanza al primo anno dopo il parto. Rispetto alla depressione post-partum materna la sua espressione clinica è differente, la sintomatologia depressiva è più lieve e i disturbi tendono ad essere meno definiti e sono caratterizzati da vaghi vissuti di tensione, di tristezza, di sconforto e, nei casi più gravi, da stati di impotenza, di disperazione e di malinconia. I disturbi depressivi descritti più frequentemente sono l’umore depresso, l’irrequietezza, l’irritabilità, la preoccupazione costante riguardo l’andamento della gravidanza e la salute del bambino, la perdita di interessi, le difficoltà di concentrazione e di rendimento sul lavoro, l’isolamento sociale, l’aumento o la diminuzione dell’appetito, il calo del desiderio sessuale e l’insonnia. Nel padre le alterazioni dell’umore (pianto, tristezza, senso di incapacità e di impotenza) tendono ad essere più contenute e a presentarsi assieme con altri disturbi affettivi, somatici e comportamentali che tendono a sovrapporsi alla sintomatologia depressiva, oppure a mascherarla. Tra questi in particolare: i disturbi d’ansia (attacchi di panico, fobie, disturbi d’ansia generalizzati, disturbi ossessivo - compulsivi) che sembrano manifestarsi nei giovani padri ancora più frequentemente di quelli depressivi; le lamentele somatiche (disturbi di somatizzazione, sindromi mediche funzionali, preoccupazioni ipocondriache); gli agiti comportamentali (crisi di rabbia, condotte violente, attività fisica o sessuale compulsiva, fughe nel lavoro o con gli amici, suicidio); l’abuso di sostanze (fumo, alcool, psicofarmaci, droghe) e altri disturbi di dipendenza (come quelli da gioco d’azzardo o da internet). In questi casi si manifestano frequentemente disturbi relazionali di coppia, con litigi, conflitti e relazioni extraconiugali (il periodo perinatale è quello in cui gli uomini tradiscono più frequentemente le loro compagne).
Nei casi in cui il padre presenti una sofferenza significativa è necessario rivolgersi ad uno psicoterapeuta per un aiuto psicoterapico individuale (che consenta di ridurre la sintomatologia depressiva e ansiosa, la preoccupazione ipocondriaca e le difficoltà relazionali), di coppia o di famiglia.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo