Quando uno o entrambi i partner sperimentano un malessere duraturo che sembra insuperabile e i tentativi autonomi non sono sufficienti ad appianare le difficoltà, la terapia di coppia può essere un valido strumento di aiuto. In questi casi infatti i problemi tendono a trasformarsi in dinamiche ripetitive, che alimentano le incomprensioni e creano una sorta di circolo vizioso.
La relazione di coppia non è statica e tende a cambiare nel tempo, proprio come gli individui che la compongono. Con l’approfondimento della conoscenza reciproca, la relazione fra i due partner diventa più stabile, ma le emozioni travolgenti dell’inizio si fanno sempre più sfumate e si fa spazio una valutazione più oggettiva delle caratteristiche dell’altro e talvolta la delusione delle aspettative riposte reciprocamente. Tutti questi cambiamenti possono portare a vivere un momento di crisi.
La crisi non è necessariamente una fase catastrofica e non esistono coppie che in tutto il corso della relazione non sperimentino momenti di tensione.
Nell’uso comune il termine crisi ha assunto un’accezione negativa, ma se guardiamo al significato etimologico di questa parola, possiamo coglierne anche una sfumatura positiva: un momento di crisi può essere considerato un momento di riflessione, di valutazione e può trasformarsi nel presupposto necessario per una rinascita.
Molte coppie sono in crisi, ma poche decidono di affrontare un percorso di terapia: così, mentre un numero sempre più consistente di coppie giunge alla decisione di separarsi senza aver prima tentato di accedere ad un percorso di aiuto esterno, un numero altrettanto importante continua a mantenere un legame disfunzionale e a convivere frustrato e rassegnato. La ricerca ci conferma invece che chi chiede un aiuto specialistico può sviluppare risorse utili a innescare un cambiamento, a muoversi da una situazione di stallo e dalla percezione di impotenza che ne deriva, recuperando una dimensione comunicativa e relazionale maggiormente vitale e gioiosa. Questo importante aspetto migliorativo, consente di affermare che, sebbene spesso siano le coppie in fase di crisi molto profonda a rivolgersi ad uno psicoterapeuta per intraprendere un percorso di terapia, lo stesso potrebbe essere comunque utile anche per le coppie che pur avendo una buona relazione, sentono il desiderio di migliorare la comunicazione interna, rafforzare il proprio legame e conoscersi meglio anche per affrontare in modo più efficace cambiamenti ed eventi stressanti.
La terapia di coppia si rivolge alla coppia: l’attenzione viene focalizzata sulla relazione e sui cambiamenti che possono essere apportati, allo scopo principale di superare la crisi e recuperare un’intesa per poter vivere la relazione in modo più costruttivo e soddisfacente. Si pone l’obiettivo di aiutare le coppie a definire meglio le problematiche portate per poter meglio identificare gli obiettivi terapeutici, mettere a fuoco le criticità che rendono inefficace la comunicazione ed ad appropriarsi di modalità di relazione con l’altro che promuovano il cambiamento. Questi passaggi, consentiranno di superare la fase del conflitto o anche, in alcuni casi, accompagneranno i membri della coppia alla difficile decisione di separarsi dopo aver però esplorato attentamente questa possibile scelta, alla luce di una maggiore consapevolezza di sè e del rapporto.
Ogni terapia di coppia prevede una prima fase di consulenza, fondamentale per impostare il lavoro e instaurare un clima di coerenza e fiducia, attraverso la raccolta di informazioni sulle ragioni che hanno portato la coppia a richiedere aiuto e l’esplorazione delle rispettive interpretazioni del problema, delle aspettative, dei tentativi fatti. L’obiettivo è arrivare a definire un contratto di lavoro terapeutico non ambiguo tra i membri della coppia e il professionista. A prescindere dallo specifico indirizzo psicoterapico, qualsiasi terapia di coppia si basa sull’analisi delle dinamiche tra i partner, in modo da poter elaborare specifiche strategie di comunicazione in grado di creare un nuovo equilibrio. Una parte importante all’inizio del percorso sarà dedicata all’analisi delle aspettative e delle motivazioni che hanno portato la coppia in terapia. Esistono molti tipi di terapie di coppia che si rifanno a diversi approcci teorici, tutti indubbiamente validi, ma l’aspetto più significativo e trasversale di ciascuno di essi è rappresentato dal fatto che la coppia potrà sperimentare le proprie dinamiche consolidate in una dimensione relazionale triadica, in cui un terapeuta esperto costruirà con entrambi i membri una buona alleanza di lavoro finalizzata al raggiungimento di uno stato di benessere maggiore, di coppia ma anche individuale. L’incontro con un terapeuta consentirà ai partner di essere aiutati a mettere a fuoco il significato del disagio o del sintomo, contestualizzandolo alla luce della fase del ciclo vitale in cui esso si manifesta, delle regole di relazione della coppia, della storia personale dei suoi membri e di quella delle loro famiglie d’origine. La relazione terapeutica che si instaura consentirà di modificare le dinamiche ripetitive disfunzionali che la coppia mette in atto ed a riportarla ad un equilibrio più funzionale, facendo leva sulla motivazione e sulle risorse dei partners.
Definito il contratto terapeutico e individuati obiettivi di lavoro coerenti, verrà definito il passaggio alla fase di terapia, che prevede generalmente incontri della durata di circa un’ora e mezza ciascuno a cadenza settimanale, quindicinale o mensile, a seconda delle situazioni, del grado di conflittualità o del modello teorico di riferimento.
La durata di una terapia di coppia viene solitamente definita in fase di consultazione alla luce delle problematiche portate e dell’intensità del conflitto in atto: l’analisi dei conflitti, le interpretazioni che i partner ne danno, le dinamiche comunicative e relazionali che questi innescano ed anche le prospettive di cambiamento che ciascuno sente di poter investire in tali dinamiche costituiscono una parte fondamentale della terapia. Il desiderio autentico di raggiungere un maggior benessere di coppia, la motivazione individuale così come l’esplorazione e la progressiva erosione delle resistenze che ciascun partner esprime costituiscono la parte fondante per la buona riuscita di un percorso di terapia. Così come è auspicabile non attendere che la crisi sia ormai percepita come insanabile per iniziare la terapia, è altrettanto importante concedersi un tempo ragionevole per generare i cambiamenti necessari.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Gli psicoterapeuti sono tanti, ed altrettanti sono gli orienti teorici a cui si ispirano. Ormai il mondo scientifico è concorde nell’affermare che il fattore terapeutico più importante in una psicoterapia è la relazione tra paziente e terapeuta, mettendo assolutamente in secondo piano le teorie e le tecniche che, pur essendo necessarie, si equivalgono, in linea di massima, nella loro efficacia nel trattare i vari disturbi psicopatologici. Ciò significa che poco importa (o quasi…) se il terapeuta scelto è cognitivista, psicoanalista, gruppoanalista, junghiano, freudiano, bioniano, energetico, transazionale, sistemico o altro (questo elenco rischia di essere tendente all’infinito). Quello che realmente conta è la capacità dello psicoterapeuta di entrare in relazione con la persona che ha davanti, e questa capacità sarà influenzata non tanto (e non solo) da quanto abbia studiato, da quanto possa essere preparato o meno, ma anche da certe sue caratteristiche personali che, unite a quelle del paziente, creeranno una relazione sana e positiva sulla quale basare quell’alleanza terapeutica che porta alla guarigione.
Come in tutte le professioni, tuttavia, ci sono indubbiamente professionisti che lavorano meglio degli altri. Ma come riconoscerli? Ci sono indizi o segnali che permettono di capire se uno psicoterapeuta è bravo?
Riconoscere uno psicoterapeuta bravo non è per niente facile: non ci sono parametri facilmente identificabili né criteri di misurazione condivisi. Neppure le “recensioni”, un sistema oggi molto utilizzato per valutare un professionista, sono utili, e rischiano anzi di essere fuorvianti: ci sono pazienti che adorano il proprio psicoterapeuta pur non facendo progressi, e pazienti che mostrano miglioramenti evidenti ma tendono ad attribuirli a se stessi e non alla terapia (per la verità, più un terapeuta è bravo, più riesce a far sperimentare al paziente l’esperienza di “farcela da solo”). Inoltre la terapia è prima di tutto una relazione di collaborazione, il cui esito non dipende solo dallo psicoterapeuta, ma anche e soprattutto dal paziente: se una persona non è abbastanza motivata e non possiede alcune risorse di base è difficile che ci sia un cambiamento duraturo. Infine, ogni relazione terapeutica è diversa dall’altra: ci sono quindi relazioni che funzionano e altre meno, anche se il terapeuta è lo stesso. Per tutte queste ragioni, stabilire a priori se uno psicoterapeuta è bravo o no non è un compito semplice.
Due psicoterapeuti americani, Jeffrey Kottler e Jon Carlson, hanno provato a identificare quei segnali che permettono di capire se lo psicoterapeuta sta facendo bene il suo lavoro, combinando i risultati di centinaia di studi scientifici, interviste a famosi terapeuti e capiscuola ed esperienze sul campo (sono entrambi terapeuti di vasta esperienza) e hanno raccontato il loro lavoro in un libro, Essere un eccellente terapeuta (Elsevier Italia). Quali sono dunque le loro conclusioni? Secondo i due autori le caratteristiche che ogni psicoterapeuta dovrebbe avere (e che rendono chi le possiede tutte un terapeuta davvero bravo) sono le seguenti.
La qualità principe di uno psicoterapeuta è saper creare e mantenere una solida relazione terapeutica. Essere sensibili, attenti e saper generare fiducia è la condizione fondamentale che permette al paziente di percepire quello della terapia come un “luogo sicuro”, dove potersi esprimere liberamente, affrontando senza timori anche argomenti delicati, quali comportamenti autolesionistici o ricordi e pensieri di cui ci si vergogna. Questo significa, tra le altre cose, che un buon terapeuta sa fare attenzione al linguaggio non verbale, cioè alle espressioni facciali, ai movimenti del corpo o al tono di voce.
Gli psicoterapeuti devono saper tollerare l’ambiguità, l’incertezza, la complessità e i conflitti che caratterizzano ogni relazione terapeutica. Si tratta di una capacità necessaria per favorire il cambiamento, poiché crea lo spazio perché emergano nel paziente e nel terapeuta stesso nuove direzioni e intuizioni. Anche l’incontro più conflittuale e sconfortante può avere un esito positivo se il terapeuta rimane dentro il processo invece che fuggire spaventato.
Un bravo psicoterapeuta è per sua natura compassionevole e premuroso, ed è in grado di “amare” ciascun paziente. Si intende una forma di amore che trasmette il massimo rispetto, soprattutto a chi è stato vittima di trascuratezza o abuso. E che non si limita alla stanza della terapia, ma riguarda tutte le persone incontrate anche al di fuori della propria attività, dal panettiere al venditore di rose.
I terapeuti migliori sono più veloci ed efficienti nel trovare soluzioni efficaci non tanto perché hanno un dono o un talento particolare, ma per l’estrema dedizione al lavoro e per la curiosità insaziabile che li guida durante tutto il loro percorso professionale. Sono instancabili e sono mossi dalla voglia di essere sempre preparati.
Uno psicoterapeuta bravo è in grado di adattare il proprio stile e le proprie strategie ai bisogni del paziente. Possiede un alto grado di pragmatismo e sa utilizzare una vasta gamma di metodi e strategie. Pur avendo un modello di riferimento, si è emancipato dai propri insegnanti e ha trovato una propria voce: possiede cioè un suo stile personale, una propria “melodia”, che si è evoluta attraverso la pratica professionale.
I bravi terapeuti preferiscono la dura realtà a una rassicurante illusione. Sono emotivamente onesti e sanno dire la verità ai pazienti in modo che questi possano prendere contatto con ciò che non vogliono vedere. Uno dei compiti principali del terapeuta, infatti, è dare feedback costruttivi ai pazienti, illustrando loro quali comportamenti sono controproducenti e disfunzionali, naturalmente usando sensibilità e delicatezza.
I bravi terapeuti osano: accettano le sfide difficili e complesse piuttosto che rifugiarsi nelle attività semplici e routinarie. Sanno portare i propri pazienti all’azione, per esempio con compiti a casa, attività esperienziali, giochi di ruolo in seduta, dialogo, esperimenti comportamentali. Si assumono la responsabilità per quello che fanno e per le conseguenze che ne derivano.
Ai bravi terapeuti viene naturale prestare attenzione ai punti di forza dei loro pazienti. Hanno un genuino interesse verso le persone e verso i modi differenti in cui queste danno senso alle loro esperienze. Secondo Martin Seligman, il fondatore della psicologia positiva, una terapia è tanto più efficace quanto più si concentra sull’ampliare il benessere invece che sul ridurre la patologia. Valorizzare le risorse significa favorire trasformazioni, svolte, salti di livello nella costruzione dell’identità di sé. Non per niente oggi c’è sempre più attenzione verso la cosiddetta “crescita post-traumatica”: le avversità e le tragedie permettono alle persone di sviluppare capacità di resilienza talvolta insospettabili. Talvolta, per cambiare, è necessario “toccare il fondo”, poiché è proprio da quel dolore che proviene la forza in grado di promuovere i cambiamenti necessari. Per questo è importante che un terapeuta sappia infondere speranza e ottimismo, una capacità che si sviluppa con l’esperienza.
I bravi terapeuti chiedono feedback ai colleghi e soprattutto ai pazienti: li invitano costantemente a riferire loro come stanno rispondendo al proprio lavoro e che cosa si potrebbe fare insieme per migliorare le cose.
I bravi terapeuti non si ritengono responsabili delle svolte creative che a volte si verificano nelle loro sedute, me li considerano piuttosto il risultato di uno sforzo collaborativo. Non si sentano mai proprietari dei risultati delle loro terapie, dal momento che il successo è prima di tutto del paziente, né si può diventare un grande terapeuta se ci si pone come priorità quella di conseguire successi. È invece fondamentale pensare sempre come un principiante, ogni minuto di ogni seduta terapeutica. I professionisti più creativi lavorano in una relativa oscurità, non si interessano della notorietà.
Un buon psicoterapeuta è in grado di imparare dai propri errori: anziché essere spaventato dagli errori ne è affascinato. Sa che le opportunità di crescita e di apprendimento per lo più nascono dagli imprevisti e dalle speranze disattese. Riconoscere e comprendere i propri fallimenti è fondamentale per smettere di fare le cose che non stanno funzionando e provare altre strade. Per questo i terapeuti migliori, anziché evitare le sfide che aumentano la probabilità di ottenere risultati insoddisfacenti, sono inclini ad affrontarle. Come ovvio, è fondamentale che il terapeuta abbia l’attitudine a non incolpare mai il paziente quando le cose non funzionano e che sappia assumersi le responsabilità degli errori senza farsene spaventare.
I terapeuti davvero bravi vanno oltre la mera tecnica e sanno utilizzare le proprie caratteristiche personali per rafforzare l’efficacia del lavoro di aiuto. I valori che abbracciano a livello professionale sono congruenti con i principi personali con cui si muovono quotidianamente anche in privato. Sono onesti e corretti perché l’affidabilità è il “gold standard”: ma non si limitano a dare l’impressione di essere affidabili, lo sono sul serio. Sono spontanei senza essere impulsivi. Ricercano la verità e dicono la verità, tuttavia la comunicano con grande sensibilità e attenzione.
I terapeuti migliori sono anche un po’ “matti”. Questo perché si danno la possibilità di sperimentare, di prendersi dei rischi, di accedere a parti di sé e dei loro pazienti ancora inesplorate. Sanno andare – e condurre i loro pazienti – oltre la zona di comfort, verso sentieri ancora sconosciuti.
I terapeuti migliori possiedono un’approfondita conoscenza non solo della psicoterapia ma anche di molti altri campi. Hanno infatti una fame insaziabile di comprendere se stessi, gli altri e il mondo. E questo è un bene perché la professione di psicoterapeuta offre l’opportunità di utilizzare nel lavoro quotidiano qualsiasi cosa, dai film visti ai libri letti, dalle esperienze vissute nel quotidiano ai viaggi intrapresi.
Ogni tot anni i bravi terapeuti cambiano qualcosa di importante nel loro modo di lavorare e nella loro vita. La “routine” li annoia. Sanno uscire dalla propria zona di comfort spingendosi ad allargare la propria visione del mondo. Si reinventano sempre anche perché non ambiscono alla sicurezza e tollerano l’insicurezza. È questa caratteristica che li protegge dall’attaccarsi troppo a qualsiasi teoria o idea.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
In un articolo precedente ho scritto delle implicazioni psicosociali nei pazienti affetti da tumore. Con questo articolo vorrei aggiungere un tassello al mosaico, parlando di un aspetto altrettanto importante quando si parla di cancro: la famiglia.
Se la persona colpita dalla malattia rappresenta il protagonista principale, la famiglia assume un ruolo altrettanto significativo. Di fatto, la stessa comprensione delle reazioni emozionali del paziente è resa più completa dall’analisi delle reazioni della famiglia nel suo insieme, in quanto sistema primario di supporto. Il cancro è da considerarsi un evento traumatico familiare, una malattia familiare che minaccia l’unità della famiglia e che crea cambiamenti importanti nella sua struttura e nel suo funzionamento.
Il momento della diagnosi è certamente un evento estremamente traumatico per la famiglia che, parallelamente al proprio congiunto ammalato, sperimenta reazioni fisiologiche acute caratterizzate da shock, con sentimenti di angoscia paralizzante, di rabbia, di stupore incredulo. Momenti di negazione e rifiuto di quanto sta accadendo si intrecciano a momenti di disperazione, in cui prevalgono sentimenti di ineluttabilità, separazione e perdita per il proprio congiunto, vissuto come “destinato a morire”. A queste reazioni fanno seguito risposte di elaborazione finalizzate all’adattamento e all’accettazione dell’inevitabilità degli eventi. In questo periodo la famiglia può manifestare stili difensivi diversi. Meccanismi di modellamento o occultamento della verità, determinati dal bisogno di mantenere l’equilibrio proprio e del paziente possono alternarsi o associarsi a meccanismi di ipercoinvolgimento, a sentimenti di ansia marcata e a modalità iperprotettive nei confronti del proprio congiunto, talvolta con ricerca di cure e terapie miracolose. In altre circostanze possono prevalere atteggiamenti di distanziamento, in cui meccanismi di isolamento e allontanamento della persona ammalata si configurano in una evidente delega di tutto quanto concerne la malattia a luoghi e persone all’esterno della famiglia. La fase di accettazione di quanto è accaduto può determinare il superamento delle difficoltà collegate alla malattia e il progressivo riadattamento delle modalità comunicative e delle dinamiche intra-familiari, con il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Ciò è particolarmente evidente nelle situazioni in cui la patologia neoplastica esita in una guarigione clinica, con scomparsa della malattia e lunga sopravvivenza della persona. In molti casi, tuttavia, l’effetto dirompente del cancro mette in evidenza problematiche familiari gravi e precedenti la malattia, che provocano la disorganizzazione della famiglia stessa.
La relazione coniugale viene colpita in maniera marcata dalla malattia. Difficoltà a parlare della malattia (negata, nascosta, taciuta) o, qualora si sia potuto nominare il cancro, della paura della malattia (la sensazione della sua continua presenza, il timore della sua ricomparsa) sono elementi immediatamente visibili nella relazione con la famiglia. In altri casi, specie nelle relazioni in cui vi sia un buon livello di comunicazione, la malattia può essere vissuta come un nemico estraneo verso il quale unirsi per combatterlo e sconfiggerlo. Gli atteggiamenti del coniuge sano tendono in genere a modificarsi assumendo contorni caratterizzati da aumento del calore affettivo e diminuzione della critica e dell’ostilità, al fine di sostenere il coniuge malato. È chiaro che anche la gravità della situazione fisica del paziente, con il notevole carico che comporta per chi gli sta accanto, si pone come importante elemento nel determinare situazioni di esaurimento emotivo della coppia. Inoltre, differenze sono presenti se ad essere colpito è il marito piuttosto che la moglie, essendo stato riportato come in quest’ultimo caso il livello di disagio e sofferenza psicologica sia maggiore. Benché sia difficile generalizzare, alcune delle modalità di reazione della coppia rispetto alla diagnosi di cancro di uno dei suoi membri possono essere le seguenti:
Anche alla reazione emozionale dei figli di un genitore che si ammala di tumore è stata per lungo tempo prestata poca attenzione. È frequente infatti che i figli, specie se in età infantile o adolescenziale, vengano estromessi da quanto sta accadendo nella convinzione che essi non capirebbero, che è meglio non farli soffrire o che non sono sufficientemente autonomi. Che i figli risentano in maniera notevole della malattia di un genitore è evidente. Circa un terzo dei bambini reagisce mettendo in evidenza disturbi del comportamento a scuola, difficoltà del sonno e disturbi dell’alimentazione, difficoltà di relazione coi compagni e a volte comparsa di atteggiamenti aggressivi. Queste reazioni tendono ad essere maggiormente evidenti quando la malattia del genitore ha una lunga durata, quando l’adattamento del genitore è scarso e quando il figlio ha ricevuto poche informazioni rispetto agli eventi. È chiaro che l’età del proprio figlio, e quindi la fase di sviluppo psicologico raggiunta, assume importanza nella reazione che questi manifesta verso la malattia del proprio genitore. Nei bambini molto piccoli è chiaro che la comprensione di quanto può accadere al papà o alla mamma è molto scarsa. Quando il bambino è un po’ più grande (tra i 3 e i 10 anni) la percezione del pericolo della malattia è maggiore. Vengono registrati in questa età sentimenti di solitudine, separazione e perdita, stati di ansia e depressione, associati a idee di colpa legate alla percezione di un proprio ruolo nell’aver fatto ammalare il genitore. Nei bambini in età pre-adolescenziale (10-13 anni) le risposte possono essere assai diverse con tentativi di auto-responsabilizzazione per tamponare le angosce legate alla percezione di insicurezza e fragilità della famiglia, mista a sentimenti di rabbia per la perdita del sostegno familiare, necessario invece in quell’età per la propria sicurezza. In età adolescenziale (13-18 anni), emergono sentimenti di ambivalenza connessi al conflitto tra i propri bisogni di autonomia, indipendenza e separazione, e i sentimenti di colpa legati a non voler rinunciare alla libertà ma a dover al contempo sostenere il gruppo familiare in crisi.
Nella fase avanzata, le reazioni emozionali della famiglia raggiungono il loro livello di maggior intensità. La consapevolezza di aver esaurito gli strumenti terapeutici, l’aggravamento continuo delle condizioni fisiche del proprio congiunto e la consapevolezza dell’ineluttabilità del percorso verso la morte determinano un livello di sofferenza elevato per la famiglia. L’assistenza a quest’ultima in questa fase rappresenta un compito assai difficile per il medico e per tutte le figure professionali coinvolte nell’equipe di medicina palliativa. Una difficoltà nasce dal conflitto di ruolo con cui la famiglia si confronta. La famiglia si pone infatti al contempo sia come “soggetto” di cura, data la funzione di supporto primario per il proprio congiunto ammalato e di strumento co-terapeutico che affianca l’equipe assistenziale, sia come “oggetto” di cura, data la necessità che i bisogni della famiglia siano ascoltati e soddisfatti.
Le reazioni emozionali della famiglia alla fase avanzata di malattia sono spesso inquadrate nel concetto di lutto anticipatorio, un momento importante per la famiglia che si confronta con l’imminenza della perdita del proprio caro. Il lutto anticipatorio non rappresenta una fase anticipata del processo del lutto (poiché di fatto la perdita non è ancora avvenuta), e non sta a significare, nemmeno, che il processo di lutto vero e proprio sarà in seguito facilitato. Nel processo di lutto anticipatorio i sentimenti di depressione sono meno presenti e meno intensi rispetto a quanto accade nel lutto propriamente detto, mentre prevalgono sentimenti di ansia e angoscia di separazione.
In ogni caso, l’attenzione e la giusta comprensione delle reazioni emozionali, degli atteggiamenti e dei comportamenti che i familiari mettono in atto come preparazione alla perdita risultano estremamente importanti nell’assistenza in fase avanzata di malattia. Le reazioni emotive possono oscillare tra sentimenti di paura di non sentirsi all’altezza di ciò che sta per accadere, o di non sentirsi competenti riguardo procedure tecniche e pratiche terapeutiche. Sentimenti di colpa possono presentarsi come reazione al pensiero di non essere stati o di non essere sufficientemente presenti nella condizione di maggior bisogno, o colpa per aver provato rabbia verso il proprio congiunto o di aver desiderato in maniera “egoistica” che “tutto finisse in tempi rapidi”. Sentimenti di tristezza legati alla perdita della propria identità familiare (“non sarà più come prima”) si associano a sentimenti di vuoto, inutilità e di impotenza. Altrettanto frequente è la rabbia, indirizzata verso persone o situazioni (il mondo, dio, il medico,i familiari assenti, gli amici che si ritraggono, il paziente stesso che ci sta per lasciare) e proiettata in senso impersonale all’esterno (il destino, lo stile di vita, lo stato, le istituzioni). Reazioni indicanti meccanismi di minimizzazione o negazione (“forse c’è stato qualche errore negli esami”, “mi pare che le cose vadano meglio, forse non è grave come sembra”) possono essere presenti come modalità per difendersi dall’angoscia e proteggersi da quanto non si vorrebbe avvenisse.
Il lutto rappresenta per la famiglia il momento ultimo del percorso della malattia: mentre nel lutto anticipatorio le perdite riguardavano livelli molteplici ma non quello definitivo della vita, il lutto implica la necessità dell’elaborazione della mutilazione causata dalla morte del proprio caro. Vi riguardo a questo articolo sul lutto per un’analisi più approfondita su questo evento.
Articolo tratto da: Biondi, Grassi, Costantini: Manuale pratico di psico-oncologia. - Il Pensiero Scientifico Editore.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
In questi ultimi mesi del 2018 si è parlato molto di counseling e nel momento in cui scrivo la polemica è ancora aperta. Non voglio tediarvi con tutti i passaggi burocratici, con le iniziative di alcuni Ordini degli Psicologi regionali contro le iniziative e alcune dichiarazioni ambigue da parte dell’Ordine Nazionale degli Psicologi (CNOP), non vi annoierò scrivendo di leggi o di altro. Quando scrivo gli articoli per questo “blog” ho sempre in mente i potenziali lettori, persone che magari accedono a queste pagine inserendo nel motore di ricerca di Google termini come “psicologo a Palermo”, “psicoterapeuta”, “ansia”, “attacchi di panico”, “depressione” o altro. Probabilmente tra queste persone, alcune in questo momento della loro vita stanno attraversando un momento di malessere psicologico e cercano qualcuno o qualcosa che possa aiutarli ad uscirne. Alcune di queste persone sono probabilmente disorientate, non conoscono la differenza tra uno psichiatra, uno psicoterapeuta ed uno psicologo e, non avendo chiaro quale sia il loro malessere, non hanno chiaro quale sia il professionista più adatto a loro. Nel blog sono già presenti articoli che parlano della differenza tra le tre professioni scritte sopra, o articoli sulle leggi che regolamentano la professione di psicologo e di psicoterapeuta, o ancora articoli che spiegano ogni articolo del codice deontologico e le sue implicazioni teoriche e pratiche. Vi rimando a questi articoli se siete interessati ad approfondire questi aspetti.
In questo articolo invece vorrei scrivere del counselling e dei rischi che si corrono quando a praticarlo è una persona non preparata e non autorizzata.
Se cercate su wikipedia la parola “counseling” le prime tre righe che incontrerete saranno queste:
“Il termine counseling (o anche counselling in inglese britannico) indica un'attività professionale che tende ad orientare, sostenere e sviluppare le potenzialità del soggetto, promuovendone atteggiamenti attivi, propositivi e stimolando le capacità di scelta. Si occupa di problemi non specifici (prendere decisioni, miglioramento delle relazioni interpersonali) e contestualmente circoscritti (famiglia, scuola, lavoro). In Italia tale attività è svolta dallo psicologo, come atto tipico della propria professione”.
In Italia tale attività è svolta dallo psicologo… questa a mio avviso è la frase più importante, perché il counseling è un atto tipico della nostra professione. C’è la falsa credenza che la nostra professione si basi su un ascolto (più o meno attento) delle problematiche portate dall’altro e sull’elargizione di una serie di consigli sul “cosa fare” e sul “come farlo” affinché le cose possano sistemarsi. C’è la falsa credenza che “tutti siamo un po’ psicologi”… Nulla di più sbagliato. La nostra professione prevede una serie di competenze (attive e passive) che si acquisiscono in svariati anni di studio, tirocinio, seminari, congressi e tanto altro. Per definirsi psicologo bisogna superare un esame di stato al quale si accede solo con una laurea quinquennale in psicologia ed un anno di tirocinio professionalizzante. Per diventare uno psicoterapeuta bisogna aggiungere a quanto scritto prima altri quattro anni di una scuola di specializzazione riconosciuta dal ministero e, molto spesso, una psicoterapia personale. Amici, familiari, sacerdoti, vecchi saggi, guru, sciamani e altre figure danno e daranno consigli basati non su competenze scientifiche, ma su esperienze e vissuti propri che a volte non fanno altro che danneggiare l’altro colpevolizzandolo o sminuendo il problema. A tutte queste figure mancano tutta una serie di competenze (quella diagnostica in primis) che permettono di inquadrare veramente il malessere all’interno di un sistema familiare e sociale che chiunque di noi si porta dentro e dal quale chiunque di noi è attraversato. Lo psicologo competente non consiglia, lo psicologo competente apre nuovi scenari, nuovi punti di vista e lascia sempre libero il suo paziente di agire come vuole e come può.
Altra frase presa da wikipedia: “Il counseling è una professione non organizzata, ovvero priva di una legge istitutiva e di un ordine professionale. A seguito del varo da parte del parlamento della legge 14 gennaio 2013, n. 4, "Disposizioni in materia di professioni non organizzate" il counseling è stato inserito tra le professioni intellettuali, per esercitare le quali non è necessario seguire alcun iter specifico. La normativa lascia al singolo professionista la facoltà di qualificarsi professionalmente intraprendendo un percorso privato di certificazione professionale presso un'associazione professionale di categoria o attraverso la cosiddetta autoregolamentazione volontaria. Da un punto di vista pubblicistico chiunque può dichiararsi "counselor" senza alcun obbligo di formazione specifica”.
Non è necessario seguire alcun iter specifico… chiunque può dichiararsi “counselor”… personalmente mi vengono i brividi. Pensare che chiunque può aprire la porta di uno studio e accogliere una persona che sta male, giocando con la salute di questa persona, avendo la presunzione di “poterla aiutare” e di “saperla aiutare” è un qualcosa che mi lascia perplesso.
Ad oggi, con un corso di appena qualche week-end al mese per due anni (o anche meno) si diventa counselor… a mio avviso non basta per prendersi cura di qualcosa di così delicato come la nostra psiche, le nostre emozioni, la nostra capacità di stare al mondo, di amare, di lavorare, di avere una vita relazionale e sessuale soddisfacenti. Una recente campagna contro l’abuso della professione di psicologo, promossa dall’associazione “AltraPsicologia” recitava così: “non mettere la tua testa nelle mani del primo che capita”.
Ovviamente le associazioni di counselor affermano di prendersi cura di problemi generici, di non occuparsi di psicopatologia e di mantenersi a distanza da aree che, legalmente, non gli competono. Questo può essere vero, non penso che i counselor siano truffatori o cattive persone. Solo mi chiedo come facciano ad accorgersi, quando hanno un cliente davanti, che questi abbia o non abbia una patologia sottostante al problema che porta. Ad esempio, come fanno a capire che la persona che si rivolge a loro lamentando una “sfortuna” nelle relazioni sociali non abbia in realtà un disturbo di personalità borderline che lo porta a fare allontanare inconsciamente tutti quelli che gli si avvicinano? Con quali competenze riescono a differenziare una semplice difficoltà momentanea (che tutti noi possiamo avere) da un qualcosa di più profondo che causa quella difficoltà? Il problema a mio avviso non sta nell’onestà intellettuale di chi svolge un lavoro, ma nelle competenze realmente acquisite che gli premettono di svolgere quel lavoro al meglio.
Per questi motivi io, personalmente, non andrei mai da un counselor. Certo, probabilmente costa meno di uno psicoterapeuta, probabilmente il percorso proposto sarà anche più breve, ma i risultati saranno (se ci saranno) sicuramente inferiori sia in qualità sia in stabilità e durata a lungo termine. La nostra salute mentale è preziosissima, non sottovalutiamola. Quando chiedete aiuto controllate sempre che la persona che avete contattato abbia le credenziali giuste: iscrizione all’albo professionale, abilitazione all’esercizio della psicoterapia (qualora vogliate intraprendere un percorso di psicoterapia), assicurazione RC professionale, possibilità di fatturare le prestazioni. Così facendo vi proteggete dal punto di vista legale, e avrete più fiducia sul fatto che il professionista che vi sta accogliendo sia preparato e autorizzato.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Tra le malattie a minaccia per la vita, il cancro si pone come evento tra i più traumatici e stressanti con il quale chi ne è colpito deve confrontarsi. Nonostante i progressi della medicina in ambito oncologico, infatti, il vissuto soggettivo del cancro e l’interpretazione individuale e sociale di questa malattia restano quelli di un processo insidioso e incontrollabile, che invade, trasforma e, lentamente, porta alla morte.
Il cancro, indipendentemente dai contesti culturali, è considerato in ogni caso la malattia più temuta in assoluto.
Indubbiamente, poche altre malattie hanno così evidenti conseguenze per la persona ammalata, minacciando e interferendo su tutte le dimensioni su cui si fonda l’unicità dell’essere umano: la dimensione fisica, la dimensione psicologica, la dimensione spirituale ed esistenziale e la dimensione relazionale.
A livello fisico il corpo rappresenta il primo nucleo dell’identità personale che viene colpito. Il cancro, portando in primo piano la morte come realtà concreta, rende evidente, spesso in maniera improvvisa e imprevedibile, la finitezza della vita. Gli effetti della malattia e delle terapie, quali le mutilazioni fisiche, il dolore, la nausea e il vomito, la perdita di capelli o l’astenia, determinano modificazioni violente della propria immagine corporea. Tali cambiamenti possono comportare difficoltà nella conduzione della propria vita quotidiana, a causa delle limitazioni del paziente, della necessità di aiuto, della perdita parziale o totale della propria autonomia e della conseguente dipendenza dagli altri.
È evidente che tutto ciò si associa a conseguenze importanti sul piano psicologico, data l’inscindibilità, come esseri umani, della sfera biologica ed emozionale. Le reazioni emotive e le difese psichiche messe in atto dal paziente costituiscono un’area fondamentale per la comprensione del significato della malattia.
Strettamente correlata alla dimensione emozionale è la dimensione spirituale che coinvolge le parti più profonde dell’essere e dell’essenza di ciascuno di noi. È evidente che la spiritualità include non solo la fede ed il proprio credo religioso, ma il senso stesso che si da alla vita e all’esistenza, il significato del tempo e del destino.
Intersecato con queste dimensioni, il livello relazionale descrive e denota gli aspetti relativi al nostro essere individui concepibili e riconoscibili solo in un contesto comunicativo e relazionale. Il nostro senso di appartenenza ai sistemi micro-sociali (famiglia, amici) e macro-sociali (lavoro, comunità, politica) viene minacciato e colpito dalla diagnosi di cancro. Le modifiche relative a come ci si percepisce e a come dagli altri si è, a propria volta, percepiti, minacciano il mantenimento di sentimenti di integrazione e appartenenza, a scapito di sentimenti di abbandono, solitudine ed emarginazione che emergono in maniera tumultuosa e disumanizzante.
Risulta chiaro da quanto scritto come sia l’assistenza alla persona colpita dal cancro sia i percorsi di cura debbano articolarsi prendendo in considerazione, in maniera globale, tutte le dimensioni dell’esistenza.
Il percorso di malattia-cancro è posto all’interno di un continuum che va dalla comparsa dei primi sintomi di sospetto alla guarigione o alla fase di terminalità. Secondo una lettura evolutiva è possibile decodificare e interpretare l’ammalarsi di cancro, approfondendo la comprensione delle implicazioni psicosociali della malattia secondo le singole fasi del percorso che la persona sta affrontando.
In altre parole, possiamo descrivere le conseguenze psicosociali della malattia, differenziando una fase di allarme pre-diagnostico, relativa al periodo della comparsa dei primi sintomi e del sospetto della malattia, una fase acuta, che coinvolge il periodo di crisi determinata dalla diagnosi, e una fase elaborativa, più prolungata, che riguarda il periodo successivo, caratterizzato dal graduale e progressivo riassestamento alla nuova situazione. È evidente che a questa fase possono far seguito ulteriori fasi a seconda dell’evoluzione e dell’esito della malattia, rappresentate rispettivamente dalla guarigione o dalla ricorrenza o recidiva di malattia fino alla morte. Vediamo queste fasi nel dettaglio.
La fase pre-diagnostica rappresenta un momento importante, caratterizzato da emozioni intense e drammatiche. La scoperta di sintomi in sedi o organi noti per il rischio di neoplasia determina una reazione di allarme nei confronti della quale le persone reagiscono attraverso modalità diverse. Alcune variabili entrano in gioco nell’influenzare questo delicato momento: il momento della vita in cui questi sintomi compaiono, la personalità, il bagaglio di esperienze personali di malattia, lo stile individuale con cui l’attenzione o i comportamenti vengono rivolti alla salute.
La più frequente e comprensibile reazione osservabile è quella di allarme, caratterizzata da un elevato senso di preoccupazione e di incertezza rispetto ai significati del sintomo. È questo dubbio atroce, questo pre-sentimento o timore più o meno evidente che spinge, nella maggior parte dei casi, a rivolgersi al proprio medico per iniziare gli accertamenti più idonei. In molte circostanze prevale una reazione di ansia controllabile, mediata dalla tendenza del paziente a razionalizzare la situazione e ad attendere l’esito degli esami diagnostici. In altre circostanze prevale un atteggiamento pessimista in cui i pensieri sono polarizzati dai propri sintomi, vissuti con una certezza intima che stiano ad indicare la presenza del cancro. Gli esami diagnostici risultano quasi sempre stressanti e densi di tensione, ma è soprattutto il periodo dell’attesa dell’esito a risultare estremamente pesante sul piano emotivo. In alcune circostanze invece può accadere che l’inondazione dell’ansia sia talmente elevata che scattino meccanismi di minimizzazione o negazione del significato dei sintomi che la persona ha scoperto e che, quindi, per lungo tempo non vengono portati all’attenzione medica. Nel caso in cui sia, in effetti, presente un processo neoplastico, ciò può portare ad un grave e talvolta irrimediabile ritardo della diagnosi.
Quando i sospetti si trasformano in realtà, si determina la fase di crisi nel senso specifico del termine. Il significato della malattia in tutti i suoi risvolti drammatici invade e travolge la persona, sommergendola in maniera dirompente. Il pattern più tipico della risposta umana a questo tipo di evento è caratterizzato dalla sequenza di reazioni emozionali e comportamentali in cui sembrano succedersi diversi momenti, noti come fase dello shock (caratterizzato da incredulità e protesta per l’evento accaduto, fase di espressione di sintomi emozionali acuti (caratterizzata da stati fluttuanti in cui si alternano rabbia, disperazione, angoscia e paura), fase depressiva (in cui prevale una condizione di demoralizzazione e depressione) e fase della riorganizzazione (in cui si tenta di ristabilire un equilibrio e un riadattamento rispetto alla perdita subita). In tale sequenza di risposte è evidente il bisogno di riportare nella realtà quanto è stato perduto. Nell’impossibilità di riappropriarsi di ciò che non vi è più, si delinea la necessità di adattarsi alla nuova situazione.
Nelle fasi successive, il dover convivere con la malattia e con quanto questa ha determinato o sta determinando nella vita assume un valore centrale. In questa fase, detta del riorientamento, si assiste alla ricerca di significati nuovi da dare sia alla malattia come evento esistenziale sia alla propria esistenza nel suo insieme. Alcuni considerano questa fase come quella del “limbo”, dell’attesa di una definizione più precisa e di una certezza di essere salvi. Questa condizione viene sostenuta da molti pazienti e collegata al tempo che passa, generalmente racchiuso in una cornice definita: cinque anni. Se si resiste per questo periodo la malattia sarà definitivamente sconfitta (e, nell’immaginario, non tornerà mai più. Le visite di controllo però riaprono spesso le ferite, riproponendo le problematiche esistenziali esposte in precedenza. È chiaro che, superato il momento acuto, caratterizzato da risposte emozionali tendenzialmente comuni a tutti gli esseri umani, le modalità con cui si arriva alla elaborazione, accettazione e riorientamento nel proprio percorso di vita della malattia possono essere diverse da persona a persona e dipendono da fattori psicologici, spirituali, sociali e medici.
Le modalità attraverso le quali la malattia si evolve assumono evidentemente un significato specifico rispetto alla risposta psicologica individuale. È ovvio e noto nella pratica clinica che alla recidiva, all’aggravamento dei sintomi e alla prognosi sfavorevole corrisponde un impatto emotivo, psicologico e interpersonale peggiore rispetto alle situazioni la cui guarigione rappresenta l’auspicato esito della malattia. Per fortuna oggi sono sempre più frequenti le situazioni in cui il paziente, grazie all’efficacia delle terapie, guarisce, trovandosi anche a molti anni di distanza “libero” clinicamente dalla malattia. È la condizione di quei pazienti indicati come “long- survivors”. Può risultare scontato che il guarire assuma il significato di ritorno alla norma, di ripresa completa del proprio percorso esistenziale in tutte le dimensioni che lo hanno caratterizzato. In realtà le dimensioni dell’evento sono state tali per cui elementi che mantengono vivo o risvegliano il ricordo sono sempre presenti. La letteratura e la pratica clinica dimostrano infatti che assai diverse sono le conseguenze psicologiche per le persone che hanno attraversato l’esperienza del cancro e diverse quindi le situazioni riscontrabili. In alcuni casi può prevalere una modalità di evitamento di quanto è accaduto. In altri casi, l’evento della malattia e delle conseguenze che questa ha avuto determinano profondi cambiamenti interni che esitano in una profonda percezione di crescita personale che permette di affrontare l’esistenza sotto una luce diversa. In altri casi ancora la persona può mantenere un atteggiamento di preoccupazione continua che non si risolve: i sentimenti di incertezza, le preoccupazioni per la salute, il senso di perdita per come si era e per come non è più, il senso della mancanza di controllo, le difficoltà di adattamento lavorativo, i disturbi della sfera relazionale e della sessualità possono permanere.
Articolo tratto da: Biondi, Grassi, Costantini: Manuale pratico di psico-oncologia. - Il Pensiero Scientifico Editore.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Il "lutto" in psicologia ha la valenza generale di "perdita" e il processo psicoemotivo che innesca è sostanzialmente lo stesso a prescindere dal tipo di perdita subìta, purché riguardi un aspetto rilevante della vita. Si può, quindi, sperimentare un "lutto" anche dopo un licenziamento, un divorzio o la morte di un animale domestico che teneva compagnia da anni. Tuttavia, è evidente che, nell'accezione comune, il lutto per eccellenza è quello relativo alla perdita di una persona cara, esperienza a cui si evita, fin dove possibile, di pensare, ma con la quale quasi tutti, in una o più occasioni della vita, sono purtroppo costretti a confrontarsi.
Un lutto è sempre doloroso, non soltanto per l'inevitabile dispiacere di non poter più avere al fianco un affetto importante, ma anche perché impone a chi resta di ridefinire la propria esistenza e trovare un nuovo equilibrio in un sistema di riferimento affettivo e "pratico" sensibilmente modificato. Dopo essere venuti a conoscenza della perdita, è del tutto normale provare disperazione, rabbia, rifiuto della situazione, seguiti da sofferenza psicoemotiva e profonda mancanza della persona cara. Questi stati d'animo, di norma, perdurano per alcuni mesi, ma non di rado possono persistere anche per 1-2 anni.
Nel lutto "fisiologico", le emozioni negative, il disagio e il senso di colpa e smarrimento tendono a essere elaborati, più o meno consapevolmente, e ad attenuarsi con il passare del tempo, permettendo a poco a poco di recuperare un buon tono dell'umore e di ricominciare a vedere la propria vita in una prospettiva positiva. Per alcune persone questo processo di elaborazione e adattamento può essere più lento e difficile che per altre, lasciando in uno stato di significativa prostrazione molto a lungo ed esponendo al rischio di complicanze, prima tra tutte l'instaurarsi di un episodio depressivo, soprattutto in soggetti predisposti.
Per evitare di soffrire più del dovuto dopo una perdita importante è essenziale prendersi cura di se stessi, come si farebbe durante la convalescenza di una malattia, "proteggersi" da sensi di colpa, non sentirsi obbligati ad assumere determinati atteggiamenti o a provare emozioni formalizzate perché ciascuno soffre a modo proprio, con i propri tempi, le proprie difficoltà e le proprie risorse. Alcune "strategie" psicologiche e comportamentali possono aiutare a reagire positivamente a una situazione oggettivamente critica.
Le prime descrizioni della sintomatologia post lutto vennero proposte da Lindermann nel 1944 dopo un incendio al Night Club Coconut Grove di Boston. Esse comprendevano:
Questa sintomatologia gli permise di definire 3 principali stadi del lutto:
Successivamente Bowlby (1982), che per molto tempo si concentrò sullo studio della costruzione e della rottura dei legami affettivi identificò 4 fasi del lutto:
Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002) – possiamo definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso questi momenti:
Le sopracitate sono appunto fasi e non stadi, poiché non si assiste rigorosamente a una sequenzialità, ma esse possono presentarsi con differenti tempistiche, alternanze, intensità.
Qualora ci si renda conto di trovarsi in uno stato di sofferenza psicoemotiva eccessiva, che non dà segni di miglioramento dopo 2-3 mesi o che tende addirittura a peggiorare, è consigliabile rivolgersi a uno psicologo per avere un supporto specialistico e affrontare meglio il problema. Molto probabilmente, si sta sperimentando il cosiddetto "lutto patologico" o "disturbo da lutto complicato persistente", una vera e propria malattia psichiatrica (codificata anche nel Manuale diagnostico statistico delle malattie psichiatriche - DSM 5, nel capitolo dedicato ai disturbi dell'adattamento) che, per essere superata in tempi ragionevoli e senza rischi secondari, richiede un intervento di sostegno psicologico mirato o un breve ciclo di psicoterapia, eventualmente affiancati da una terapia farmacologica nei casi più gravi.
Chiunque può sperimentare un disturbo da lutto complicato persistente dopo la perdita di una persona cara, soprattutto se la perdita è avvenuta in modo improvviso e imprevedibile e se ha interessato una persona giovane cui si era molto legati (in particolare, un figlio). Tuttavia, la probabilità di veder perdurare la sofferenza e lo stato di prostrazione legati al lutto sono maggiori nelle persone che già soffrono di un disturbo psichiatrico o che sono predisposte a soffrirne, poiché qualunque trauma significativo agisce da fattore scatenante/precipitante. Tra i principali elementi che aumentano il rischio di sperimentare un lutto patologico vanno ricordati:
Nei primi mesi dopo la perdita di una persona cara, le sensazioni che si provano nel caso di un lutto "fisiologico" sono del tutto sovrapponibili a quelle del lutto complicato persistente. A differenziare le due forme è essenzialmente l'andamento della severità dei sintomi, che migliorano nel primo caso e perdurano/peggiorano nel secondo. Gli aspetti cui si deve prestare attenzione, se persistenti, sono in particolare:
Un disturbo da lutto complicato persistente non riconosciuto e non trattato in modo adeguato può portare allo sviluppo di una serie di problematiche mediche, psicologiche e sociali collaterali anche molto serie, determinando un generale significativo deterioramento del benessere personale e della qualità di vita. Le principali complicanze comprendono:
Se dopo 2-3 mesi dalla perdita di una persona cara ci si trova in uno stato di profonda sofferenza che non accenna a migliorare è importante parlarne con uno psicologo per ottenere un supporto specialistico mirato. In particolare, lo psicologo va contattato se sono presenti:
Oltre che dal diretto interessato da lutto patologico, la persistenza di questi sintomi devono essere tenuti nella massima considerazione da parenti e amici, che, in caso di riscontro positivo, devono invitare con sensibilità e delicatezza a ricercare un aiuto competente. Ciò è particolarmente importante quando i sintomi depressivi sono significativi e associati all'idea di non riuscire a vivere senza la persona deceduta e/o a pensieri di morte/suicidio.
Posto che dopo un lutto un certo grado di sofferenza è per tutti inevitabile, esistono alcuni atteggiamenti psicologici che possono contribuire a vivere l'esperienza con minori difficoltà. Un concetto apparentemente banale, ma cruciale per supportare il recupero è che la vita continua e chi resta ha non soltanto il diritto, ma anche il dovere, di ricominciare a vivere il più serenamente possibile al più presto, senza sentirsi in colpa per questo né per ciò che non si è stati in grado di dire o fare in passato per chi è venuto meno.
Un errore che capita a molti, soprattutto se la morte del familiare è avvenuta in un clima poco sereno, dopo un periodo di tensioni non risolte, o se si ritiene per qualche ragione di "non aver fatto abbastanza" quando ce n'era ancora la possibilità, è quello di sentirsi "in obbligo" di stare male, rinunciando in modo più o meno consapevole a tutte le attività che potrebbero aiutare a sentirsi meglio e a ritornare alla vita di sempre. Non c'è niente di più sbagliato, perché il passato, nel bene e nel male, non cambia e imporsi una sofferenza evitabile non aiuta nessuno. Al contrario, se, dopo un primo momento di stordimento, si percepisce il desiderio di riprendere in mano la propria vita, di dedicarsi ad attività piacevoli o di interagire socialmente lo si deve accogliere, coltivare e soddisfare.
D'altro canto, se nei primi mesi il dolore è molto profondo, non ci si deve neppure sentire in obbligo di essere "stoici per forza", di mostrarsi sereni quando dentro si hanno nuvole dense. Si deve, molto semplicemente, vivere la propria sofferenza, senza drammatizzarla, ma cercando di capirla e sfruttarla come un momento di crescita, di evoluzione personale, che può anche renderci migliori. Le persone care che sono accanto possono essere una risorsa preziosa per rinnovare la motivazione ad andare avanti nonostante la perdita.
Concentrarsi sugli affetti e sulle relazioni sociali positive, creando attivamente occasioni di incontro con parenti e amici con cui fa piacere chiacchierare, pranzare, passeggiare, trascorrere del tempo è dunque assolutamente consigliabile. Così come è consigliabile evitare tutte le situazioni obbligate: se non si ha alcuna voglia di andare a una cena o a una festa o ci si sente a disagio in compagnia di determinate persone, è del tutto legittimo declinare l'invito senza preoccuparsi di che cosa potranno pensare gli altri.
Ogni attività potenzialmente in grado di suscitare interesse o procurare piacere va incentivata, compreso il lavoro. Soprattutto se è sempre stata una fonte di stimoli positivi e mette in contatto con colleghi gradevoli e sensibili, riprendere l'attività lavorativa può essere una vera e propria ancora di salvezza, perché non c'è niente di meglio che riprendere la vita di tutti i giorni e vedere che tutto prosegue lungo gli assetti consolidati per capire che le cose possono ritrovare un loro ordine e una loro ragion d'essere.
Un altro errore da evitare è ignorare, o peggio inibire, i segnali di ripresa emotiva. Ricominciare a provare piacere in quel che si fa o amore per le persone nuove che si incontrano non è ingiusto nei confronti di chi non c'è più, né è il segno di averlo amato poco o di amarlo di meno. Di questo bisogna essere profondamente consapevoli e coltivare ogni minima emozione positiva come un dono di cui sarebbe ingiusto privarsi.
Oltre a questi consigli specifici, è importante cercare di riposare a sufficienza, di nutrirsi in modo sano ed equilibrato e di praticare attività fisica, preferibilmente all'aperto perché supportare il benessere fisico rende più forti anche sul piano psichico. Lo sport è un grande alleato per scaricare la tensione e le emozioni negative e può concretamente aiutare a recuperare più in fretta un buon equilibrio psicoemotivo. Se non si è abituati a praticarlo e non si ha voglia di iniziare in un momento difficile, è sufficiente passeggiare almeno un'ora al giorno, possibilmente in un parco o in un'area verde facilmente accessibile, per sfruttare anche il potere calmante e il senso di continuità e rinnovamento insito nella natura.
Per affrontare il disturbo da lutto complicato e persistente, ma anche per prevenirlo qualora ci si renda conto che il disagio che si sta vivendo a causa della perdita di una persona cara è francamente eccessivo, è spesso sufficiente intraprendere un percorso psicoterapico mirato di alcuni mesi, affidandosi a uno psicologo esperto di terapia del lutto.
In genere, l'approccio psicoterapico al lutto prevede interventi focalizzati sull'analisi delle difficoltà soggettive incontrate dalla persona sofferente, contestualizzati nella situazione familiare e sociale specifica.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Con il termine triade oscura della personalità si intende un insieme di tre tratti comportamentali, quali: narcisismo, machiavellismo, e psicopatia.
MACHIAVELLISMO: il termine indica una personalità manipolativa, fredda e controllata, con scarso senso morale, autocentrata e tendente all’inganno.
Nella sua opera più famosa, “Il Principe”, Machiavelli descrive le qualità che un principe deve possedere: prudenza, saggezza, capacità di simulare e dissimulare, capacità di usare la forza per mantenere la stabilità e il potere, arte della guerra, virtù, avere la forza di un leone, la furbizia di una volpe e la ragione degli uomini. Il principe ideale deve saper creare e mantenere il potere per la stabilità dello stato. Non c’è da stupirsi quindi se “Il Principe”, è tuttora citato nei migliori testi sulla leadership. Al centro del pensiero machiavellico vi è la massima “Il fine che giustifica i mezzi”. Per conservare il potere e potenziare lo Stato, “Il Principe” è giustificato nel compiere qualsiasi azione, anche quelle in aperto contrasto con le leggi della morale. Secondo molti studiosi è errato pensare ad un elogio della massima “Il fine giustifica i mezzi” in quanto Machiavelli giustifica questa condotta soltanto in nome della salvezza dello Stato. Ma di fatto, questo pensiero, ingiustamente o meno, fa apparire Machiavelli come un uomo furbo e calcolatore tanto che “machiavellico” è diventato un aggettivo che indica qualcosa di subdolo e malizioso. Secondo la classificazione de La Triade Oscura, le persone machiavelliche sono incredibilmente “strategiche” nel loro modo di approcciarsi alla vita. Le conseguenze di ogni azione sono ben ponderate: “In che modo questa azione mi porterà beneficio? In che modo questa azione influirà sulla mia immagine pubblica?” Le persone machiavelliche sono, per loro natura, abili a nascondere le loro vere intenzioni dal controllo pubblico; maestri nel fare tutto ciò che occorre per raggiungere i propri scopi, riuscendo, nel contempo, a mantenere un’immagine pubblica positiva.
NARCISISMO: il costrutto di narcisismo subclinico o normale fu proposto nel tentativo di definire una versione subclinica del disturbo di personalità narcisistica indicato nel DSM e comprende alcuni indicatori utilizzati nella diagnosi originale: grandiosità, senso di diritto, dominanza e superiorità. Molte persone pensano ai narcisisti come individui che amano apertamente se stessi. Ciò non è esatto, soprattutto quando la comprensione del narcisismo passa attraverso la lente de La Triade Oscura.
L’amore di sé si basa psicologicamente sull’autostima e sull’autoefficacia. Una buona dose di sano e benefico amore per la propria persona conduce a ideali e scelte mature, al desiderio di realizzare le proprie aspirazioni e di migliorarsi, al rispetto per sé stessi e per gli altri, a una giusta cura di sé e del proprio aspetto e ciò non significa assolutamente essere narcisisti.
I Narcisisti che soddisfano i criteri de La Triade Oscura si percepiscono come speciali, persone importanti per la storia dell’umanità, si sentono superiori. Rappresentano la migliore categoria di essere umano possibile e il loro comportamento riflette il loro senso di superiorità.
Alcune delle manifestazioni esteriori comuni di un narcisista sono l’incapacità di accettare le critiche o il dissenso in alcun modo e nel contempo la necessità di essere lusingati. I narcisisti hanno un bisogno costante di lodi, approvazione e “riconoscimento” e tendono ad organizzare la propria vita in un modo che un gruppetto di “privilegiati” possa soddisfare questo bisogno (i veri amici).
PSICOPATIA: Gli aspetti centrali del costrutto includono elevata impulsività associata alla ricerca di forti emozioni, scarsa capacità empatica e bassa presenza di ansia e rimorso (pare che gli psicopatici presentino un’alterazione nel funzionamento delle strutture cerebrali deputate al processamento della paura). La componente psicopatica de La Triade Oscura è caratterizzata da mancanza di empatia, da incapacità nel provare colpa, rimorso o lealtà verso alcuno, e dalla tendenza a coinvolgersi in comportamenti rischiosi e impulsivi.
Sfatiamo subito un mito: Non tutti gli psicopatici sono persone violente o assassini. Possono diventarlo, ma si tratta di casi eccezionali; la maggior parte degli psicopatici vive nella società con un certo successo, ma causa molti danni alle persone che ha intorno.
Spesso, ma non sempre, sono coinvolti in attività criminali, perché sono privi di coscienza. È interessante notare che ci sono psicopatici in quasi ogni professione – per esempio medici, avvocati, infermieri, insegnanti – ma queste persone imparano a contenere gli istinti e non infrangono leggi. Le stime sono variabili, ma si può affermare che circa una persona su centocinquanta (1:150) è psicopatico.
Secondo il modello di Steve Peters il cervello di uno psicopatico è privo del Centro di Umanità che il resto di noi possiede, ovvero la parte della mente che è di competenza dell’Umano (la parte razionale del cervello). Il Centro di Umanità contiene aree che evocano sentimenti come il senso di colpa, il rimorso, la compassione, l’empatia e la coscienza.
Gli psicopatici tendono a essere individui freddi e calcolatori, che usano gli altri a proprio vantaggio. Dunque, uno psicopatico è responsabile delle sue azioni? Su questo punto le opinioni divergono ma, comunque la pensiamo, sembra proprio che quest’area del cervello sia assente o inattiva.
Gli aspetti che accomunano tra loro le tre dimensioni di machiavellismo, narcisismo (subclinico) e psicopatia (subclinica) sono i seguenti:
1) La psicopatia subclinica si distingue per il basso livello di nevroticismo (indicatore che misura la tendenza ad essere ansiose, pessimiste, stressate, arrabbiate, spaventate ed emotivamente instabili)
2) Machiavellismo e psicopatia mostrano entrambi un basso livello di coscienziosità e moralità
3) Il narcisismo correla positivamente con la presenza di elevate abilità cognitive
4) I narcisisti e – in maniera ridotta gli psicopatici - condividono elevati punteggi indicativi di auto-esaltazione e senso di superiorità e "grandeur".
Gli individui caratterizzati dalla triade oscura mostrano, come abbiamo visto, alcuni tratti distintivi che derivano da forme subcliniche di narcisismo e psicopatia e dalle caratteristiche del machiavellismo:
Queste persone si muovono nel mondo più o meno impunemente, e non è affatto difficile trovarne in rete tra i disturbatori (trolls), nell’ambiente di lavoro (soprattutto all’interno della classe dirigenziale), o tra le frequentazioni interpersonali.
Sono infatti i famosi "sciupafemmine" di un tempo o i "serial lovers" di oggi a mostrare chiaramente molte delle caratteristiche della triade oscura:
Le ricerche hanno messo in evidenza l'effetto potenzialmente distruttivo che tali individui hanno sull’ambiente e sui loro partner.
Veniamo ad un aspetto davvero interessante e anche molto delicato della questione: l’effetto che questi individui portatori dei tratti oscuri di personalità hanno sul altro sesso.
Gli studi mostrano come gli individui caratterizzati dalla triade oscura di personalità presentino strategie di accoppiamento più rapide e superficiali degli altri e vincenti nel breve periodo: essi collezionano infatti numerosi partner sessuali, hanno una spiccata propensione al sesso casuale e a sostituire un partner con un altro, hanno standard meno esigenti nella scelta del partner, mostrano la tendenza a “rubare” i partner degli altri, ed hanno un approccio pragmatico, superficiale e “usa-e-getta” alle relazioni amorose.
A questi aspetti si associano inoltre altre caratteristiche che spesso rendono questi partner eccitanti e desiderabili, soprattutto da parte di partner fragili, annoiati, delusi dalla propria vita sentimentale, professionale o generale, alla ricerca di emozioni e cambiamento bisognosi di sentirsi desiderati ed importanti.
Gli individui “Dark Triad” infatti mostrano spesso grande cura per l’aspetto fisico ed il vestiario, intelligenza e fascino (sanno essere brillanti e divertenti), manipolazione (sono in grado di comprendere perfettamente cosa il partner desidera e si aspetta da loro e sanno come ottenere ciò che vogliono), impulsività ed amore per il rischio (travolgono il partner in una girandola di emozioni e lo fanno sentire speciale e desiderato), tendenza all’abuso di sostanze, scarso autocontrollo.
Restano tuttavia individui freddi, opportunisti, sfruttatori e irrispettosi verso l’altro, ed è meglio imparare a riconoscerli e a non entrare in relazione con loro se non per una fugace e divertente avventura erotica, che presto rischierebbe di trasformarsi in una esperienza dolorosa, abusante e disorientante.
Vorrei concludere con una piccola nota. Difficilmente questi individui si incontrano dentro uno studio di psicoterapia. Molto più probabile che in psicoterapia arrivino le “vittime” di tali soggetti le quali, dopo relazioni più o meno lunghe, si sentono come “vampirizzate” emotivamente, svuotate, stanche, con poca fiducia in se stessi e verso gli altri.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
Secondo Foulkes, padre della gruppoanalisi, “il gruppo è la matrice della vita mentale dell’individuo”. Egli propone l’immagine del gruppo come rete, all’interno della quale gli individui corrispondono a punti nodali; la rete del gruppo è il sistema totale di persone che vanno raggruppate insieme rispetto alla loro relazione e gli individui sono i punti nodali della rete.
Quando un gruppo di persone stabilisce rapporti intimi, si intreccia una rete intima di comunicazioni che gradualmente si sviluppa in una matrice quasi organica, all’interno della quale hanno luogo tutti i processi. La qualità particolare di tali processi è tale per cui essi passano attraverso l’individuo. È questo insieme di relazioni transpersonali che costituisce la “mente”.
La “mente” quindi consiste di processi di interazione tra un certo numero di persone strettamente collegate, chiamato comunemente gruppo. Viene così superata la contrapposizione tra realtà psicologica “interna” e realtà “esterna”: il sociale non è esterno, ma pure profondamente interno, e penetra l’essere più interno della personalità individuale.
Viene anche superata la contrapposizione individuo – gruppo: il corpo è sicuramente un’entità individuale coerente, ma esiste anche una matrice mentale sovrapersonale. Tale matrice, a partire dalle proprietà biologiche della specie, definisce il rapporto di ciascuno col mondo, organizza le “disposizioni a..” e le articola secondo il modo codificato dai valori, dalle relazioni, dalle modalità pratiche di organizzazione dell’esperienza.
L’individuo è inconsapevole di tale fondazione transpersonale: egli è normalmente convinto che il suo modo di sentire e di pensare sia quello naturale e giusto, che il suo linguaggio sia quello che si parla “realmente”.
La famiglia originaria è la rete primaria in cui si forma in modo decisivo la personalità del futuro individuo. Questa rete, oltre un asse orizzontale, comunicativo, basato sul qui e ora, ha un asse verticale che punta al passato, ai genitori, alla fanciullezza dei genitori, al rapporto dei genitori con i propri genitori, e tutto questo entra nella parte più interna del fanciullo in formazione.
La famiglia è a sua volta inscritta in una rete bio-culturale collettiva, di cui interpreta e media norma, valori, modalità relazionali.
Il transpersonale quindi si configura come la condivisione fondamentale dell’esperienza umana (Lo Verso). È l’impersonale collettivo che attraversa la nostra identità più intima senza che il nostro potere cognitivo possa minimamente concettualizzarle (Menarini). È la rete della relazioni inconsce nella quale è sedimentato il patrimonio biologico e culturale della specie umana ed attraverso la quale si fonda la vita psichica dell’uomo (Giannone).
La relazione (individuo – famiglia – collettivo), fonda radicalmente l’esperienza psichica.
La gruppoanalisi (in particolare la scuola palermitana) ha cercato di fare un ulteriore passo in avanti, rintracciando le articolazioni dei livelli collettivi cui le configurazioni personali dei singoli possono essere riferiti. Si sono individuati alcuni livelli rispetto ai quali la dimensione individuale e le dimensioni collettive possono essere messe in connessione, aprendo ad una maggiore reciproca comprensione.
Questi vari livelli del transpersonale si possono suddividere in: un primo livello che ha radici in un passato ancestrale ed è il livello biologico – genetico: noi siamo portatori di un apparato costituito dal nostro DNA, dai nostri geni, ed è comune alla specie uomo, ed è il transpersonale ad un livello biologico - genetico.
A questo livello se ne aggiunge un altro più specifico ed è quello etnico - antropologico che è funzione del luogo di nascita che organizza le aree antropologiche etniche di possibili modalità di vita, di relazioni familiari profondamente diversi. Il transpersonale di tipo antropologico si disarticola in vari livelli di tipo più specifico, infatti esistono aree del transpersonale etnico - antropologico che sono specifiche della cultura, e sono quelle che hanno a che vedere con il dove sono nato, in quale famiglia.
Il livello del transpersonale transgenerazionale riguarda la mente di un bambino allo stato nascente immerso nel codice familiare che attraversa le generazioni passate, i miti, le metaconoscenze, le categorizzazioni e le precognizioni nelle quali la storia familiare si perpetua.
Ad un altro livello c’è il transistituzionale, ossia il tipo di istituzioni specifica del luogo dove si vive, questo fa riferimento ai ruoli, alle gerarchie, alle appartenenze ed alle regole implicite ed esplicite di tipo socioculturale.
Tutti questi livelli, dal più profondo al meno profondo, sono attraversati da un livello detto socio-comunicativo, questo riguarda le modalità di trasmissione della cultura e dei livelli di socialità attraverso la verbalizzazione e la narrazione.
Infine il transpersonale politico ambientale che attraversa i precedenti livelli ed ha a che fare con gli stati nascenti della comunità; è il luogo dove l’individuale diventa parte del collettivo e il collettivo costituisce l’individuale.
Ora, benché nessuno di questi aspetti è isolabile dagli altri, l’aspetto su cui si lavora di più in una psicoterapia analitica ad orientamento gruppoanalitico è quello transgenerazionale. Questo perché la gruppoanalisi soggettuale guarda alla famiglia come una trama di significazione che, nel tempo e attraverso le generazioni, crea i modelli mentali attraverso i quali l’individuo entra in relazione con la realtà. La famiglia rappresenta, quindi, un vero e proprio “universo identificatorio” all’interno del quale, come dicevamo, ciascun individuo sviluppa la sua identità come complesso di relazioni interiorizzate.
Proprio sullo studio della famiglia intesa come campo mentale attraversato da scambi inter e transgenerazionali, molti autori hanno speso molto del loro impegno scientifico definendo “insature” le matrici familiari che consentono il rimodellamento simbolico dei loro temi e complessi culturali e “sature” le matrici familiari ove si riscontra un’indisponibilità a tale rimodellamento. Premesso che rimodellare i sistemi simbolici è compito peculiare della specie sapiens, e premesso che tale rimodellamento non è effettuabile da un individuo solo poiché è un processo che richiede reciprocità e partecipazione della comunità, questi autori si sono chiesti che succede agli individui cresciuti all’interno di campi mentali familiari non disponibili al rimodellamento delle loro trame simboliche. E, attraverso una lunga esperienza clinica hanno avuto modo di sostenere che, a questi individui può succedere di diventare esponenti della sofferenza appartenente al loro gruppo familiare (costretto entro alcune significazioni, o mai in contatto con le vere scaturigini degli atteggiamenti e delle storie che si tramandano).
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
La Clinica Gruppoanalitica
Un contributo importante che la clinica gruppo analitica ha dato alla comprensione dello sviluppo mentale normale e patologico deriva dall’individuazione di una dinamica transpsichica transgenerazionale alla base di tale sviluppo.
Fu lo stesso Foulkes (il fondatore della Gruppoanalisi) a cogliere immediatamente tale interconnessione durante le sue prime terapie di gruppo: “considero il paziente che mi sta di fronte come l’anello di una lunga catena, un punto nodale in una rete di interazione, la quale è la vera sede dei processi che portano tanto alla malattia quanto alla guarigione. Sono sempre più convinto che il paziente che noi vediamo è in se stesso solo un sintomo di un disturbo che investe un’intera rete di situazioni e di persone, che costituisce l’autentica sede di intervento di una terapia radicale ed efficace”.
La teoria dello sviluppo mentale secondo la gruppoanalisi privilegia l’assunto secondo il quale la personalità si costruisce strutturandosi in relazione al campo mentale familiare inteso come una trama di pensiero collettivo chiamata “matrice familiare”. Tale processo strutturante si realizza mediante l’assimilazione da parte del bambino dei modelli di pensiero della famiglia cui appartiene e dei suoi “temi culturali”, definibili come peculiari costrutti emotivo-cognitivi che condensano tanto le vicissitudini esistenziali della famiglia e delle generazioni precedenti, quanto le modalità psicologiche costruite appunto per dare senso a tali vicissitudini. Ogni famiglia è quindi caratterizzata da una particolare cultura che affonda le radici nella sua storia e in quella delle generazioni precedenti. L’interazione tra questa cultura familiare e il mondo interno del bambino determina lo sviluppo di quella trama relazionale definita “matrice personale” proprio per definire il concetto di fondazione culturale della mente: in questo senso la nostra mente è sostanzialmente gruppale.
Per realizzare fisiologicamente tale strutturazione antropologica della mente cui è finalizzata, la matrice familiare deve potersi costituire come spazio transazionale (o matrice familiare insatura) dal quale sia possibile per il bambino dare significato alle generazioni e culture precedenti e parallelamente dare un senso all’ignoto del nuovo progetto evolutivo. Il bambino diventa persona quando può trasformare simbolicamente (inconsciamente) in nuovi significati la cultura familiare e trans personale, cioè quando può pensare la discontinuità evolutiva attuale rispetto alla cultura degli antenati storicamente data. All’impossibilità di tale rappresentazione mentale è correlata l’insorgenza di linee di frattura (trans generazionali) potenzialmente psicopatogene, le quali segnalano realtà “non pensabili” che possono intrappolare il paziente nella rete impedendogli la sua completa individuazione (lo sviluppo di una sana matrice personale).
Su questa base, il sintomo psichiatrico (o il malessere psicologico) si configura come conseguenza della non avvenuta trasformazione dei temi culturali in eventi simbolici all’interno del pensiero. In quest’ottica la psicopatologia è visualizzabile come la conseguenza di un fallimento della matrice familiare nella sua funzione di spazio transazionale, come mancata trasformazione significativa della storia delle generazioni precedenti: in tal caso parliamo di “matrice familiare satura”.
Ne deriva che la funzione essenziale della matrice familiare è quella di garantire al bambino la possibilità di fondare un suo apparato mentale autonomo (discontinuo) attraverso la trasformazione significativa della rete transpersonale, cioè della cultura degli antenati. Soltanto la famiglia in quanto pensiero gruppale può assolvere a questo compito impossibile per un pensiero individuale.
La capacità della famiglia di costruire relazioni significative tra la propria storia, la storia degli antenati e il nuovo progetto storico del bambino, permette al bambino stesso di organizzarsi come sintesi dialettica all’interno di questi tre campi: di fondarsi come persona. Se invece la famiglia non riesce a dare senso al nesso esistente fra la sua storia e quella delle generazioni precedenti, anche il nuovo progetto storico del bambino sarà minato da “aree senza senso” potenzialmente psicopatogene. In questo caso, infatti, verrà alterato il processo di costruzione della persona intesa come nodo della rete transgenerazionale: l’esito di tale alterazione potrà consistere appunto nell’insorgenza di un’evidente sindrome clinica psicopatologica o nella stabilizzazione di un disturbo di personalità.
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo
I diversi tipi di Psicoterapia
Ad oggi vi sono diversi tipi di psicoterapia. Bisogna innanzi tutto operare una distinzione, che in genere crea molta confusione, tra la modalità di psicoterapia, che riguarda le persone a cui la terapia è rivolta (per cui avremo: la psicoterapia individuale, la psicoterapia di coppia, la psicoterapia familiare, la psicoterapia di gruppo) e il tipo di psicoterapia, che riguarda l’approccio teorico e le tecniche pratiche della terapia.
In molte occasioni, quando una persona prende coscienza di dover andare dallo psicologo, continua a mantenere certe idee erronee su cosa sia la psicoterapia. Spesso ha in mente la classica scena di un paziente sdraiato sul divanetto con il terapeuta dietro di lui che prende appunti. La classica immagine della psicoanalisi continua a pesare moltissimo nel subconscio collettivo.
Il tipo di psicoterapia si differenzia in base alla teoria e alla pratica che lo psicoterapeuta utilizza nel suo lavoro. Nel corso di questo e dello scorso secolo si sono sviluppati moltissimi approcci teorici e pratici diversi, moltissimi punti di vista sull’uomo e sulla sua salute psicologica. Di conseguenza i tipi di psicoterapia sono oggi tantissimi.
Possiamo comunque affermare che, seppur da punti di vista differenti, l’obiettivo generale è lo stesso per tutte: migliorare lo stato di benessere e aiutare le persone a realizzare il proprio potenziale.
Presenterò adesso vari tipi di psicoterapia. L’elenco non vuole essere esaustivo, né vuole essere una classifica con il fine di individuare quale tra i vari orientamenti sia il migliore: tutti i tipi di psicoterapia possono essere efficaci se il professionista è competente e se si crea una buona alleanza terapeutica. Alla gruppoanalisi, il mio orientamento, dedicherò in seguito un articolo a parte. Iniziamo!
G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo