Articoli e riflessioni

Incuriosito dal tanto parlare di Intelligenza Artificiale ho deciso di provarla. Mentre tutti chiedono "come posso diventare ricco", oppure vogliono i prossimi numeri del superenalotto, io, da "bravo psicoterapeuta" ho chiesto al bot dell'intelligenza artificiale ChatGTP di scrivere un articolo di duemila parole sugli attacchi di panico in chiave psicoanalitica. Quello che segue è il risultato. Tengo a precisare che ho fatto un "copia e incolla" senza modificare neanche una parola. Al momento non scriverò nulla riguardo al mio pensiero su questo nuovo e tanto discusso strumento, voglio studiarlo ancora  prima di esprimere una mia personalissima opinione. Vi lascio all'articolo, buona lettura!

Ps: ho chiesto al bot la bibliografia di quanto scritto e mi è stato risposto che la risposta è generata dalla mole di informazioni con cui è stato caricato, per cui non può fornire una bibliografia precisa. 

 

 

Gli Attacchi di Panico alla Luce della Psicoanalisi: Un'Analisi Approfondita

Introduzione

Gli attacchi di panico sono un disturbo psicologico debilitante che colpisce un numero significativo di persone in tutto il mondo. Chi ne soffre sperimenta improvvisi e intensi episodi di paura intensa e ansia, accompagnati da sintomi fisici come palpitazioni, sudorazione e sensazione di soffocamento. Mentre molte teorie hanno cercato di spiegare l'origine degli attacchi di panico, l'approccio psicoanalitico offre una prospettiva unica per comprendere e trattare questo disturbo. In questo articolo, esploreremo gli attacchi di panico in chiave psicoanalitica, analizzando le radici psicodinamiche del disturbo e il ruolo dell'inconscio nell'insorgenza e nella manifestazione dei sintomi.

La Teoria Psicoanalitica di Freud

Per iniziare, è fondamentale comprendere i principi di base della teoria psicoanalitica di Sigmund Freud. Secondo Freud, l'inconscio svolge un ruolo significativo nel determinare il comportamento umano. L'inconscio contiene desideri, impulsi e ricordi repressi che possono influenzare il modo in cui una persona si comporta e si sente. Freud teorizzò che gli attacchi di panico potessero derivare da conflitti intrapsichici irrisolti e desideri in conflitto.

Origini degli Attacchi di Panico: La Teoria dell'Ansia di Separazione

Uno dei concetti chiave nella comprensione degli attacchi di panico in chiave psicoanalitica è la teoria dell'ansia di separazione. Secondo questa teoria, gli attacchi di panico possono essere visti come una manifestazione di un profondo senso di separazione o perdita che risale all'infanzia. Nei primi anni di vita, quando un bambino dipende totalmente dai suoi genitori o caregiver per sopravvivere, l'esperienza di separazione può innescare un'intensa ansia.

Nel corso dello sviluppo, gli individui sviluppano difese psicologiche per far fronte a questa ansia di separazione. Tuttavia, alcune persone possono presentare una maggiore vulnerabilità a sviluppare attacchi di panico a causa di un'esperienza di separazione o perdita traumatica nell'infanzia. Questi eventi passati possono essere rievocati da situazioni di separazione o di abbandono nella vita adulta, innescando così gli attacchi di panico.

Il Ruolo dell'Inconscio negli Attacchi di Panico

Secondo la prospettiva psicoanalitica, gli attacchi di panico possono essere visti come una manifestazione di conflitti inconsci e desideri repressi. Freud sosteneva che i desideri o gli impulsi inaccettabili venissero spinti nell'inconscio, ma che continuassero a influenzare il comportamento e il benessere mentale di un individuo. Nel caso degli attacchi di panico, la paura inconscia potrebbe emergere improvvisamente e manifestarsi come un'esperienza di panico acuta.

Gli attacchi di panico possono essere visti anche come una forma di difesa contro la consapevolezza di desideri o emozioni inaccettabili. L'ansia che accompagna gli attacchi di panico può distrarre una persona dai pensieri o sentimenti scomodi che si trovano nell'inconscio. In questo senso, gli attacchi di panico possono funzionare come una sorta di meccanismo di difesa per evitare di affrontare il materiale psicodinamico scomodo.

Trattamento Psicoanalitico degli Attacchi di Panico

La terapia psicoanalitica può offrire un'opzione di trattamento efficace per le persone che soffrono di attacchi di panico. Attraverso l'esplorazione dell'inconscio e la rivelazione dei conflitti intrapsichici, il terapeuta può aiutare il paziente a comprendere meglio le radici profonde del suo disturbo. Questa consapevolezza può essere essenziale per il processo di guarigione.

Durante la terapia, il paziente può esaminare i ricordi repressi, i sogni e le fantasie che possono essere collegati agli attacchi di panico. L'obiettivo è quello di identificare i conflitti emotivi irrisolti e lavorare per integrarli in modo più sano nella vita consapevole del paziente. Inoltre, la terapia psicoanalitica può aiutare a riconoscere e modificare i modelli di pensiero distorti o le credenze limitanti che alimentano gli attacchi di panico.

Conclusioni

Gli attacchi di panico rappresentano un disturbo che può essere estremamente debilitante per chi ne soffre. Mentre molte prospettive teoriche cercano di spiegare l'origine e la manifestazione di questo disturbo, l'approccio psicoanalitico offre una prospettiva unica basata sull'inconscio e sui conflitti intrapsichici. Attraverso l'analisi delle radici psicodinamiche degli attacchi di panico, la terapia psicoanalitica può aiutare i pazienti a comprendere meglio se stessi e a superare gli ostacoli che impediscono loro di vivere una vita piena e soddisfacente. È importante ricordare che ogni individuo è unico e che un trattamento personalizzato è fondamentale per affrontare gli attacchi di panico in modo efficace.

Uno dei miei primissimi pazienti era uno studente universitario che sul più bello del percorso di psicoterapia si trovò a dover decidere se partire per il “progetto Erasmus” e interrompere per qualche mese il percorso che stavamo facendo insieme o rinunciare all’esperienza all’estero. Correva l’anno 2009, Whatsapp era stato lanciato da poco e i programmi per le videochiamate erano davvero pochi e funzionavano male. Per quello studente la psicoterapia era importantissima e sapeva che non poteva rinunciarvi facilmente in quel momento della sua vita. 

L’idea che per una psicoterapia, un percorso che deve spingere verso la vita, una persona dovesse rinunciare ad un’esperienza di vita importante non mi piaceva affatto (e continua a non piacermi). Per cui gli proposi di continuare il nostro percorso online. Era la prima volta per entrambi. 

Per lo studente rimase l’unica, la sua psicoterapia online per tutto il tempo in cui rimase all’estero, poi riprendemmo di persona quando tornò a Palermo

Per me, invece, quella fu la prima di una lunga serie di percorsi di sostegno psicologico o di psicoterapia svolti online. Nel frattempo la tecnologia è cambiata, le linee sono molto più veloci, la qualità dell’immagine è sempre più alta e sono state ideate tantissime applicazioni da poter usare, anche se io uso per la maggior parte dei casi la videochiamata di Whatsapp, per l’estrema facilità di utilizzo e per il semplice fatto che ormai ce l’hanno praticamente tutti. 

 L’Ordine Nazionale degli Psicologi ha approvato questa forma di intervento psicologico e ha dato delle linee guida che ovviamente io rispetto alla lettera. La vostra privacy è assicurata, come la puntualità, la professionalità e la mia esperienza decennale in questo campo. 

 Molti mi chiedevano: ma funziona? 

Assolutamente si!

 Oggi la validità della psicoterapia online è assodata, c’è una discreta letteratura in merito e sempre più persone cercano uno psicologo online o uno psicoterapeuta online.

A volte si passa da un setting classico ad uno online a causa di cambiamenti dovuti ad eventi di vita: trasferimenti definitivi o temporanei, necessità di salute, orari lavorativi particolarmente complicati. Altre volte si inizia direttamente con un percorso online, come accade sempre più spesso con gli expat (le persone che vivono in un altro paese) e che vogliono intraprendere un percorso di psicoterapia utilizzando la loro lingua.  

Non bisogna pensare che sia un semplice riadattamento del setting vis a vis, come non lo sono i colloqui effettuati presso il domicilio del paziente, o ancora i colloqui effettuati sul bordo di un letto ospedaliero. Sono tutti setting diversi all’interno dei quali lo psicologo utilizzerà i propri strumenti in modo diverso. 

Non è una versione “inferiore” del classico setting in studio, non vale di meno e non funziona meno.

 La psicoterapia online è un dispositivo di cura in cui ci sono due persone in due stanze, invece che due persone in una stanza. È un dispositivo attraverso il quale tutti i fattori terapeutici di una psicoterapia trovano il loro spazio, primo tra tutti il fattore di guarigione più importante: la relazione paziente - psicoterapeuta. 

 “Carl Gustav Jung ha descritto lo spazio condiviso da paziente e analista come abitato da un “corpo sottile”, un'entità organico-spirituale che favorisce la comunicazione inconscia; uno spazio intermedio dove l'immaginazione agisce e trasforma. Questa dimensione, per certi versi simile al concetto elaborato dallo psicoanalista statunitense Thomas Ogden di “terzo analitico” (per cui analista e analizzando creano insieme una dimensione intersoggettiva che permette a entrambi di trasformarsi), esiste in ogni caso. È così corporea, da manifestarsi anche a distanza. Così sottile da attraversare gli schermi.” (Lingiardi 2020).

 Ma come funziona in pratica? Ecco i primissimi step:

  •  Il primo contatto come sempre avviene tramite telefono. Potete chiamarmi al 3287328691
  • Dopo avermi spiegato brevemente i motivi per i quali si richiede una consulenza decideremo il canale attraverso cui ci vedremo (Whatsapp, Skype o altro) e il giorno e l’ora del nostro incontro.
  • Invierò via mail tutta la documentazione relativa al Consenso Informato e al Trattamento dei Dati (Privacy), che dovrete firmare e inviarmi, insieme ad una copia di un documento di identità ,prima del nostro incontro. 
  • Invierò le coordinate bancarie del conto presso il quale potrete effettuare il bonifico del pagamento. A pagamento ricevuto invierò regolare fattura via email. 
  • Al giorno e all’ora prefissata ci collegheremo e inizieremo. 

 Non esitate a contattarmi per avere maggiori informazioni. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando essere innamorati significa soffrire, stiamo amando troppo. Quando giustifichiamo tutti i malumori, il cattivo carattere, l’indifferenza del nostro partner, stiamo amando troppo. Quando siamo offesi dal suo comportamento ma pensiamo che sia colpa nostra perché non siamo abbastanza attraenti o abbastanza affettuosi, stiamo amando troppo.

Ma quando amiamo troppo in realtà non amiamo affatto, perché siamo dominati dalla paura: paura di restare soli, paura di non essere degni d’amore, paura di essere ignorati o abbandonati. E amare con paura significa soprattutto attaccarci morbosamente a qualcuno che riteniamo indispensabile per la nostra esistenza, amare con paura comporta oltre tutto la messa in atto di tutta una serie di dinamiche di controllo per tenere l’altro nell’area del proprio possesso.

Le donne che amano troppo, solitamente, possiedono determinate caratteristiche. Se vi riconoscete in questo elenco contattate uno psicoterapeuta: solo un lavoro di psicoterapia può aiutarvi ad uscire da una condizione di sofferenza.

  • Provenite da una famiglia disturbata dove nessuno si curava dei vostri bisogni emotivi.
  • Avendo ricevuto ben poco e autentico affetto, cercate di saziare questo bisogno disatteso per interposta persona, offrendo le vostre cure a un uomo che sembra in qualche modo averne bisogno.
  • Poiché non eravate mai riuscite a cambiare i vostri genitori trasformandoli nelle persone calde e affettuose che desideravate tanto intensamente, rispondete con troppa passione al tipo di uomo emotivamente non disponibile che vi è familiare, e che potete di nuovo cercare di cambiare con il vostro amore.
  • Per il terrore dell’abbandono, fate qualsiasi cosa per impedire che la relazione finisca.
  • Praticamente nulla è troppo faticoso se potrà “aiutare” l’uomo che amate.
  • Abituate alla mancanza di amore nei rapporti personali, siete disposte ad aspettare, sperare e a continuare di sforzarvi di piacere.
  • Siete disposte ad assumervi ben più del cinquanta per cento di responsabilità, colpe e biasimo in una relazione.
  • La vostra autostima è pericolosamente bassa e, nel profondo di voi, siete convinte di non meritare di essere felici. Piuttosto, credete di dovervi guadagnare questo diritto.
  • Poiché nell’infanzia non vi siete mai sentite sicure, avete un bisogno disperato di controllare il vostro uomo e la vostra relazione. Mascherate i vostri sforzi di controllare persone e situazioni con il pretesto di essere “soccorrevoli”.
  • In una relazione siete più in contatto con il vostro sogno di “come potrebbe essere” che con la realtà dei fatti.
  • Siete dedite agli uomini e alle sofferenze emotive come a una droga.
  • Forse siete predisposte emotivamente, e spesso biochimicamente, a diventare dipendenti da droghe, da alcolici, e/o da certi cibi, in particolare dolciumi.
  • Essendo attratte da persone con problemi che hanno bisogno di essere risolti, e lasciandovi coinvolgere in situazioni caotiche, incerte ed emotivamente penose, dimenticate la responsabilità che avete verso voi stesse.
  • Forse avete una tendenza alla depressione, che cercate di prevenire con l’eccitamento che viene da un rapporto sentimentale instabile.
  • Non trovate attraenti gli uomini gentili, equilibrati, degli di fiducia che forse si interessano a voi. Questi “bravi ragazzi” vi sembrano noiosi.

 

Massimo Barrale

Psicologo - Psicoterapeuta - Palermo

Ma quando inizia e finisce l’adolescenza?

Questa è una domanda che i genitori dei ragazzi che seguo mi pongono spesso. Questa domanda rispecchia la fantasia (e la speranza assolutamente legittima) che tutte le difficoltà dei figli derivino dall’”adolescenza”, fase della vita ormai vista come portatrice di guai, e che quindi finita tale fase finiranno anche i problemi.

Lavoro come psicologo e come psicoterapeuta a Palermo da molto tempo ormai. Sin dai tempi della tesi universitaria e del tirocinio post laurea mi sono occupato di adolescenti e post adolescenti, delle loro ansie, dei loro blocchi, dei loro attacchi di panico, delle loro difficoltà e delle loro paure. In questo breve articolo proverò a dare una risposta a questa domanda.

C’è un dato di grande interesse sull’inizio dei fenomeni psichici e biologici che caratterizzano il processo adolescenziale: la progressiva anticipazione della pubertà sia nei maschi che nelle femmine. Un’anticipazione che, negli ultimi cinquant’anni, è diventata consistente: il menarca compare prima nelle preadolescenti, così come i fenomeni che caratterizzano la preadolescenza maschile.

Alcuni elementi inducono a pensare che il cambiamento di sistema educativo tenda a generare, a livello affettivo, simbolico e relazionale, una fase di “pubertà psichica” che precede quella biologica. L’accorciamento dell’infanzia e l’anticipazione dell’ingresso nell’adolescenza fanno parte di quei fenomeni che spingono la cultura pedagogica, preoccupata dagli esiti dei modelli attuali, a parlare di “infanzia rubata” e di “adultizzazione precoce”, situazioni capaci di innescare una serie di rischi importanti e di disagi affettivi o relazionali. Così, in un mondo in cui i bimbi delle elementari di oggi posseggono caratteristiche di studenti di terza media di ieri, è diventato più difficile capire a quale età sia lecito praticare un certo tipo di relazione o usare determinati oggetti di consumo. L’anticipazione dei fenomeni della pubertà, connessa allo sviluppo precoce delle competenze sociali, crea un magma confuso di ragazzi, che in parte simulano e in parte incarnano la trasformazione bambino-figlio a soggetto sessuale, con notevoli aspirazioni di autonomia nella vita collettiva.

C’è inoltre un’altra questione destinata a riflettersi in modo importante sulla definizione di alcune caratteristiche specifiche: a quale età possiamo ritenere che si concluda l’adolescenza?

Si è diffusa l’opinione che oggi l’adolescenza si prolunghi nel tempo e che si spinga ben oltre il limite entro cui si riteneva dovesse o potesse concludersi. Questa ipotesi sembra confermata dal protrarsi della presenza dei figli all’interno delle famiglie. Ciò ha dato vita al fenomeno della “famiglia lunga”, che per almeno tre decenni contiene due generazioni (genitori e figli), con una tendenza a includere anche i nonni, ragion per cui a volte si viene a creare un assetto trigenerazionale. A riguardo, si verificano due fenomeni correlati: da un lato i figli, soprattutto i maschi, restano a vivere in famiglia anche dopo i trent’anni; dall’altro, aumentano le sofferenze psichiche, che sono facilmente riconducibili al proporsi continuo di problematiche e conflitti tipici della fase adolescenziale.

Molti dati, però inducono a credere che l’adolescenza non solo cominci ma finisca anche prima. E si può dire che, al termine delle scuole superiori, gli adolescenti di oggi terminino i propri compiti evolutivi entrando nella fase del “giovane adulto”. L’iscrizione di un numero enorme di individui in tale categoria rappresenta il fenomeno più importante avvenuto negli ultimi anni e forse anche il più preoccupante. Se l’inizio di tale fascia d’età corrisponde con la fine dell’adolescenza, la sua conclusione è difficile da definire. Ovviamente, il fatto di aver arruolato masse di giovani in questa dimensione sociale intermedia, inventata dalla cultura e priva di qualsiasi riferimento agli orologi biologici, espone a parecchi rischi i soggetti in questione, che non dispongono dei poteri degli adulti e non sono più capaci di vivere le esperienze adolescenziali.

 

Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

Lavoro come psicologo e come psicoterapeuta a Palermo da molto tempo ormai, e questo mi da la fortuna di poter avere un vertice di osservazione particolare su certi fenomeni peculiari della nostra società. Sin dai tempi della tesi universitaria e del tirocinio post laurea mi sono occupato di adolescenti e post adolescenti, delle loro ansie, dei loro blocchi, dei loro attacchi di panico, delle loro difficoltà e delle loro paure. In questo articolo vorrei parlare di come i cosiddetti “riti di passaggio”, quei momenti, sanciti dalle società, che segnano appunto il passaggio da una condizione ad un’altra, in questo caso dalla condizione di adolescenti all’essere adulti, siano diventati più fluidi, si siano modificati alcuni, o scomparsi del tutto altri.

Ogni società non solo stabilisce un metodo per calcolare l’età, ma attribuisce alle diverse fasi della vita significati differenti, che implicano anche determinati stereotipi relativi allo sviluppo intellettuale, morale e sociale. Ci si aspetta che le persone cambino il loro comportamento e assumano di volta in volta un ruolo considerato consono al periodo del’esistenza che stanno vivendo. Così è previsto che un bambino non sia ancora a conoscenza delle regole sociali, che compia errori, che sia libero di divertirsi e che debba apprendere dagli adulti. Mentre da un giovane adolescente ci si attende un certo grado di trasgressione, di conflitto con i genitori, ma anche un progressivo avvicinamento al comportamento sociale ritenuto corretto.

Nella società contemporanea , potremmo dire che è la scuola a determinare la scansione delle prime fasce d’età. In genere, terminate le scuole elementari, non si è più “bambini”.

In tutte le società è importante evidenziare le differenze tra giovani e adulti, perché l’adolescenza, che è lo stato di transizione tra la condizione di bambino e quella di adulto, una sorta di migrazione interna dalla dimensione tranquilla e protetta dell’infanzia, totalmente dipendente dalla famiglia, verso una situazione di autonomia decisionale ed economica, nella quale si aprono nuovi e più impegnativi orizzonti, è una fase molto difficile e delicata, in cui l’individuo inizia a costruire la propria identità personale.

Affinché questo accada, occorre che la comunità, in cui si vive e si cresce, ponga limiti, fissi punti fermi. Si tratta, infatti, di una fase di rapida trasformazione biologica, in cui l’individuo inizia a prendere coscienza di se stesso e del fatto che deve decidere per conto suo. Mentre il bambino piccolo riporta tutto a se stesso e si costruisce un mondo a parte, a scala ridotta rispetto a quello dei grandi, l’adolescente si crea un programma di vita suo e, pur sentendosi diverso, si pone su un piano di eguaglianza rispetto agli adulti. Di qui nascono la tipica irrequietezza e la tendenza alla ribellione che caratterizzano questa fase della vita chiamata adolescenza.

Proprio perché si tratta di un momento di costruzione dell’identità, e qualunque identità si fonda e si erige sulla differenza, è quanto mai necessario che la comunità da un lato stabilisca in modo chiaro il confine tra il mondo dei giovani e quello degli adulti, e dall’altro ne “protegga” il passaggio, collocando segnali, punti di riferimento ben visibili. Le differenze devono essere ben chiare per entrambe le parti: bisogna porre limiti evidenti, netti, distinguere ciò che è lecito e giusto fare in una condizione e ciò che lo è in un’altra, portare gli individui ad assumersi determinate responsabilità e allo stesso tempo riconoscere i propri diritti.

In altri termini, l’adolescenza è l’età in cui si entra a fare parte, da protagonisti autonomi e indipendenti, della società.

Gli adolescenti di oggi non possono neppure immaginare quanto sia cambiato, in pochi decenni, il ruolo del padre all’interno della famiglia. Un tale cambiamento ha molto a che fare con la minore necessità di codificare a che età e in base al superamento di quali prove sia possibile per gli adolescenti avere accesso a un diverso livello di autonomia. Il potere del padre è stato ridistribuito tra le varie figure della famiglia e ai figli ne è toccata una parte significativa.

L’evanescenza del padre, o la sua assenza, si misurano anche e soprattutto dal disinteresse nei confronti della celebrazione di momenti di confronto all’interno della famiglia. Poco cambia che si tratti di conquistare il diritto a esplorare buona parte della notte in compagnia dei coetanei, di presentare il partner e quindi la sessualità nascente, o di discutere del denaro e dei mezzi con cui spostarsi: se tali cambiamenti avessero un peso simbolico maggiore, potrebbero scandire la crescita e aiutare i ragazzi a capire meglio la propria collocazione nella piramide della famiglia e della società.

Nel contesto attuale sono stati differiti due riti di passaggio, due appuntamenti cruciali: il matrimonio e la procreazione. Un tempo, il rito del fidanzamento costituiva un’evoluzione rispetto alla condizione precedente, nella quale la coppia era ancora “in prova”, perché nulla era stato ancora concordato e ufficialmente progettato. Il fidanzamento determinava un cambiamento radicale di ruolo che doveva essere festeggiato ma pure ampiamente pubblicizzato, poiché tutti dovevano sapere che due persone stavano per diventare marito e moglie, e trarne le conseguenze.

I giovani di oggi hanno cancellato questa “prova preliminare” forse perché pensano al matrimonio molto più in là nel tempo, dopo aver risolto altri problemi, prevalentemente di natura sociale e personale, come la formazione professionale, l’inserimento nel mondo del lavoro, l’acquisizione di una competenza che consenta di accumulare reddito e stabilizzare le disponibilità economiche.

Ma a parte le problematiche di ordine economico, anche l’amore sembra non aver più le caratteristiche oniriche del sentimento romantico, caratterizzato dall’estrema sottomissione ai bisogni e desideri del compagno idealizzato, padrone dell’anima e del corpo, legittimato a chiedere qualsiasi sacrificio, qualsiasi dimostrazione di devozione e fedeltà alla coppia.

L’amore di oggi è contraddistinto da una domanda: la coppia o il partner aiutano a crescere e a realizzare l’individuo? Nel caso in cui la risposta sia affermativa, il patto diventa importante, la fedeltà viene garantita, e un notevole livello di reciprocità può essere generosamente erogato, attraverso processi di identificazione con le ragioni dell’altro. Il quale a sua volta, per sentirsi amato e continuare ad amare, ha bisogno di appurare che il partner sia in grado di capire e legittimare le sue esigenze evolutive. Nasce così un sentimento che ha gli aspetti formali, il galateo e lo statuto affettivo dell’amore narcisistico.

La coppia narcisistica così realizza una delle più diffuse aspirazioni adolescenziali: mangiare e dormire col partner e non con i genitori e i nonni. La coppia narcisistica convive, incontra il resto della compagnia, fa tutto insieme. Ma può succedere che gli impegni evolutivi portino i componenti a doversi assentare, per esempio per andare all’estero o per rispettare promesse fatte agli amici. Il “contratto” alla base di una relazione simile prevede che non vi siano sacrifici relativi alle attività e agli interessi individuali, i quali devono solo essere rispettati e legittimati ma anche, per così dire, amati, poiché rappresentano gli strumenti attraverso cui il partner realizza il proprio sogno e cerca se stesso.

Ecco i motivi per cui i momenti di passaggio sono diventati molto fluidi. Si avverte meno la necessità di ritualizzare e segmentare ciò che è stato liberato, in fondo da poco tempo, da progetti esterni al soggetto.

 

Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

“Dottore, cosa ho? Sono grave?”…. solitamente queste sono le parole pronunciate dalle persone al termine del primo colloquio con uno psicoterapeuta. Una richiesta, legittima ovviamente, di sapere cosa hanno, se devono considerarsi gravi, e se ne usciranno mai. Sorvolando su aspetti più psicodinamici, sulle possibili manipolazioni, sul cosa se ne faranno delle risposte, sorvolando su tutti questi aspetti, in sostanza quello che le persone chiedono è una diagnosi. Il modello medico ci ha abituati a questo, alla ricerca di una malattia che ha un nome, e questo nome è garanzia di sapere cosa fare e sapere come andrà a finire.

Peccato che la diagnosi psichiatrica non abbia nulla a che fare con l’esperienza della persona che è diagnosticata: la diagnosi è sostanzialmente un processo di denominazione che segna la separazione tra psichiatria e sofferenza del paziente. La diagnosi trasforma l’esperienza della sofferenza in un codice verbale, luogo riconoscibile soltanto dallo psichiatra ma inaccessibile (e sostanzialmente irrilevante) per il paziente.

La diagnosi psichiatrica in realtà non dice né cosa fare né come andrà a finire in quanto sono i sintomi (qualora presenti) e non la loro organizzazione in una categoria diagnostica, che guidano il trattamento. La diagnosi serve a mantenere quell’unità e identità mediche pericolosamente messe in questione da altri saperi e da altre figure professionali (la psicologia e la psicoterapia in primis).

Ad oggi, per fortuna, è sempre più diffusa tra i ricercatori, la tendenza a considerare approcci dimensionali alla malattia mentale ed evitare i tradizionali approcci categoriali secondo cui la malattia è presente o assente e la diagnosi codifica tale presenza. Approccio dimensionale significa considerare normalità e malattia in un continuum fluido dove le caratteristiche personali e ambientali di ciascuno disegnano una narrativa difficilmente oggettivabile con strumenti categoriali. Si parla oggi di approcci “trans diagnostici” che paradossalmente ci riportano all’attitudine che era dei grandi psicopatologi di scuola fenomenologico – esistenziale, preoccupati di entrare in relazione con storie e vicende individuali più che di costruire categorie universali riduttive.

Certamente in ambito professionale un linguaggio comune serve, è necessario e abbiamo bisogno di strumenti diagnostici per comunicare. Tuttavia non possiamo confondere la finalità comunicativa e riduzionista di questi strumenti e classificazioni delle malattie mentali con le malattie mentali stesse, ossia dobbiamo sempre avere chiaro che il grado di artificialità e fallacia delle categorizzazioni diagnostiche è elevatissimo e che i raggruppamenti discreti di sintomi che oggi utilizziamo non esistono “in natura”.

Vorrei anche aggiungere un ulteriore tassello: il legame che c’è tra diagnosi, sistemi diagnostici e industria farmaceutica. La proliferazione di casi di “Disturbo post traumatico da stress” dopo l’11 Settembre e il mercato che si è venuto a creare in tutte le aree di emergenza, l’inflazione di disturbi del comportamento nei bambini e altri fenomeni a volte legati a “mode”, ci interrogano sulla pervasività della diagnosi psichiatrica e sulla sua sostanziale “non credibilità”. Faccio un altro esempio lontano dalla psichiatria o dalla psicoterapia: oggi per comune convenzione si considerano i valori della pressione arteriosa minimi superiori a 90 come patologici; se decidessimo di abbassare questa soglia di soli 5 punti e che a partire da 85 la pressione minima va considerata patologica, improvvisamente avremmo aumentato di decine di milioni il numero di malati di ipertensione e avremmo al tempo stesso decuplicati i benefici finanziari dell’industria farmaceutica che vende ipertensivi. Questo è quello che sta accadendo in psichiatria grazie ad una forte arbitrarietà del discrimine “oggettivo” tra caso e non-caso, grazie ad una mediatizzazione della malattia mentale che pervade la quotidianità degli individui e si appropria di tutti i fenomeni normali di sofferenza psicologica e sociale trasformandoli in malattie. L’ansia dei giovani che affrontano l’esame di maturità o il legittimo stress conseguente ad un evento traumatico o la fisiologica depressione che consegue a un lutto si psichiatrizzano e per ogni sofferenza c’è una diagnosi.

Analogamente è utile interrogarsi sui rischi di psichiatrizzare i conflitti sociali, le insoddisfazioni e le rabbie giovanili, le ineguaglianze e le contraddizioni sociali ed economiche che aggrediscono soprattutto i gruppi più vulnerabili.

Dobbiamo capire che le informazioni che il paziente porta con sé e che noi possiamo effettivamente considerare come patrimonio, sono in realtà più connesse alla vita e alla storia dell’individuo che alla sua malattia, la cui identità di “realtà autonoma “ dalla sua vita è di fatto un artefatto della clinica. Il paziente va considerato come un sistema complesso e indivisibile. La malattia non è un’entità discreta e definita/definibile, bensì è un’esperienza esistenziale “intrusa” nel soggetto.

Noi possiamo cogliere le interazione psicologiche tra il paziente e gli altri, fra paziente e vita materiale, fra paziente e risposte che egli riceve, fra paziente e luoghi, e queste interazioni possono modificarsi grazie ad un intervento che crei le condizioni affinché il soggetto possa effettuare più scelte. Per far questo disponiamo di strumenti utili anche se difficilmente standardizzabili: l’ascolto, l’empatia, la solidarietà, l’affettività, l’accoglienza, la possibilità di promuovere un confronto fra interessi del paziente e interessi del contesto familiare, la possibilità di modificare il contesto materiale di vita quotidiana del paziente, la possibilità di favorire scambi affettivi fra paziente e altri.

 

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

Il legame tra disturbi della respirazione e quello da attacchi di panico è ampiamente riportato in letteratura. Diversi lavori hanno dimostrato la similarità tra l’attacco di panico spontaneo e quello prodotto da inalazione di anidride carbonica, ponendo l’accento sulla “fame d’aria” e sulla dispnea.

La respirazione è il primo atto vitale compiuto dall’individuo, caratterizzazione che conferisce a questa funzione un significato del tutto particolare. La respirazione si distingue da tutte le altre funzioni vitali, essendo gestita volontariamente ed involontariamente (ogni individuo è capace di variare per un certo periodo l’atto respiratorio, o di interromperlo brevemente). Tale caratterizzazione permette di considerare la funzione respiratoria in modo nettamente diverso da come giudichiamo e viviamo la funzione cardiaca o quella renale.

Nel’uomo, le equazioni “respirazione = vita” e “mancanza di respirazione = morte” fanno parte di una sua consapevole inconsapevolezza. L’inspirazione diviene quindi un momento non solo reflessologico, assumendo una fisionomia di sicurezza o insicurezza a seconda del vissuto cui la stessa risulta correlata. Di fatto, respirare significa sperimentare di esistere, divenendo atto che pone l’individuo nella condizione di poter comunicare (non a caso per parlare abbiamo bisogno di respirare).

La mancanza d’aria assume il significato di morte, abbandono ed angoscia, mentre l’aria che ci “alimenta” annulla le precedenti negative sensazioni sostituendole con altre a coloritura emozionale rassicurante. Nell’individuo non “avere respiro” (quindi non riuscire a comunicare) assume principalmente un significato d’impotenza.

Gli organi che compongono l’apparato respiratorio, conseguentemente, sono simbolicamente connotati con significati di vita o di morte, di scambio tra esterno e interno, ed i disturbi della funzione respiratoria esprimono i malesseri dell’uomo e delle sue relazioni. Di fatto, le emozioni (nell’uomo come nell’animale) determinano effetti anche sull’atto respiratorio (aumento) che sul timbro e sull’intensità della voce (cambiamento): l’ansia assume così un suo linguaggio fonetico, come la tranquillità, la rabbia, la depressione, etc. Una forte emozione (uno spavento, ad esempio) può produrre un arresto del respiro, la concentrazione su qualcosa il trattenimento del respiro, molti atteggiamenti espressivi sono basati sulla respirazione (sorridere, parlare, cantare, tossire, ridere..).

Nelle situazioni delineate la comunicazione si avvale di ulteriori indicatori che hanno mutato, nel percorso filogenetico, la loro natura e rappresentazione. L’individuo arrabbiato, che adotta una modalità di verbalizzazione calma e lineare, tradisce ampiamente la “compressione” e la coartazione cui è sottoposta l’emozione vissuta (aggressività), rivela una falsa comunicazione, mentre l’energia mobilitata tende a scaricarsi internamente (sollecitazione dell’apparato cardio-respiratorio).

La similarità tra alcuni sintomi psichici concorrenti all’asma e all’attacco di panico, assumono in questa sede un rilevante interesse. Nell’attacco d’ansia il paziente è completamente teso a “ricercare” l’aria, tanto che l’operatività del versante cognitivo e quello affettivo si mostra fortemente scemata (situazione clinica tipica anche del disturbo da attacco di panico). L’asmatico ha la sensazione di essere sopraffatto da un evento che sfugge completamente al suo controllo (impotenza provata anche nell’attacco di panico), avverte angoscia al pensiero che possa ripetersi (l’ansia anticipatoria del panico), appronta tutte le precauzioni per fare fronte all’eventuale ripetersi dell’evento (condotte di evitamento messe in atto nel disturbo da attacchi di panico), ed infine, l’esperienza connessa al respiro (scambio e contatto con la realtà) appare gravemente disturbata in occasione di eventi improvvisi, nell’asma come nell’attacco di panico.

L’iperventilazione assume un’importanza rilevante nel soggetti ansiosi che soffrono di attacchi di panico. Più si sospira più si arricchisce di ossigeno i polmoni e il sangue. Visto che i polmoni lavorano soprattutto da soli, quando c’è troppo ossigeno nel sangue (e troppo poca anidride carbonica) smettono di lavorare. Risultato: il diaframma non si muove, i riflessi si disattivano, e soprattutto si disattiva quel riflesso di espirazione che da sollievo al sospiro (riflesso di Hering – Breuer). Al momento però, la paura porta a credere di non riuscire a respirare. In effetti, oltre ad avere i polmoni momentaneamente paralizzati, si sta modificando tutto l’organismo (diminuisce l’acidità degli organi interni per mancanza di anidride carbonica). Di conseguenza: gli organi cominciano ad andare a 100 all’ora, contraendosi e decontraendosi. Il cuore batte, i muscoli tremano, l’intestino borbotta, le arterie si contraggono provocando vertigini e dolori al petto, la pelle comincia ad avvertire le più svariate sensazioni, dette anche formicolio. A questo punto c’è una sufficiente quantità di motivi per convincerci di avere la malattia che si teme: se si pensa di stare soffocando, si può verificare che il diaframma non si muove (e quindi si continuerà a sforzare il respiro); se ci si preoccupa di una disfunzione cardiaca, si controlleranno i battiti e il dolore al petto; se è la digestione a impensierire, si farà attenzione alla tempesta in atto nell’intestino. quello appena descritto è ciò che accade internamente quando si sperimenta un attacco di panico.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

In questo sito internet e nella mia pagina Facebook ci sono moltissimi articoli che parlano di malessere, sofferenza, psicopatologia. La rete è stracolma di scritti sull’ansia, sugli attacchi di panico, sulla depressione, sulle fobie, sulle ossessioni, sulla paranoia e su altre patologie della mente umana. Ci sono articoli, consigli, tecniche per far scomparire gli attacchi di panico (solitamente sono sempre “sette consigli”… sei sono troppo pochi e non funzionano…otto invece sono troppi e non si ha voglia di perdere tutto questo tempo), tecniche per far scomparire l’ansia, strategie di attacco contro la depressione e contro la maniacalità. Per non parlare di queste nuove pseudopatologie come i “narcisisti patologici”, i “vampiri emotivi” e tante altre categorie che noi psicologi e psicoterapeuti non vedremo mai nei nostri studi, ma che conosciamo bene grazie (o purtroppo direi) alle persone che sono entrate in relazione con loro (queste si che approdano nei nostri studi!).

Eppure, oltre tutta una fetta di popolazione che può rientrare in quelle che noi del campo chiamiamo “etichette diagnostiche”, ce n’è una buona parte che sta male, è insoddisfatta, non riesce a realizzarsi, non riesce a spiccare il volo pur non potendola far rientrare all’interno di una diagnosi (a meno che non si operi una forzatura, cosa che non mi sembra tanto corretta).

Quindi cosa significa stare bene psicologicamente? È semplicemente l’assenza di una diagnosi? Non credo proprio. È la vecchia questione di che cosa significa essere normali o, per lo meno, mentalmente sani. Ma qui, i lettori mi scuseranno, non sono la persona adatta per dare ricette sicure. Del resto dubito che qualcuno lo sia, benché le offerte non manchino (sette consigli per….). L’unica cosa sicura è che mentre ci sono pochi modi di diventare malati, ce ne sono migliaia per restare in salute. Il problema è che essendo così tanti, nessuno sa bene quali siano. Tutto quello che sappiamo ci viene dal presente e dal passato, tuttavia la nostra vita è rivolta al futuro. Ma con la sorprendente rapidità dei mutamenti tecnologici, culturali e di costume, nessuno sa come sarà il futuro. L’ideale è esercitare la nostra capacità di immaginazione.

Abbiamo tutti il diritto di essere un tantino fobici quando una disgrazia si abbatte su di noi, un po’ paranoici quando ci ritroviamo in una dura lotta, leggermente ossessivi mentre studiamo la complessità delle cose, un po’ istrionici quando vogliamo imporci agli altri. Dalle tendenze schizoidi nascono teorie innovatrici e dai mutamenti dell’umore nasce la creatività. Se riuscite a gestire tutte queste cose con successo, i miei complimenti: vuol dire che sapete rispettare i contesti dell’esistenza e adeguarvi a questi.

Benché si possano concepire alcune combinazioni effettivamente patologiche, avere tutte le malattie equivale a non averne alcuna. L’importante è che la vostra vita vada bene, che non abbiate di che lamentarvi e che neppure gli altri si lamentino di voi.

Il grave problema di chi soffre di una patologia mentale è che si comporta sempre allo stesso modo in ogni circostanza. È per questo che queste persone sono così simili tra loro e che possiamo, perciò, classificarli. Le persone sane, al contrario, per il fatto di essere così differenti le une dalle altre, sono inclassificabili. Siamo pertanto fondamentalmente imprevedibili, anche se per vivere in una comunità organizzata dobbiamo essere prevedibili gli uni per gli altri. Questo è il primo paradosso che ci obbliga a sviluppare una personalità complessa e cosciente.

Ma state tranquilli: se leggendo qua e là vi siete identificati in tutto e per tutto con una categoria diagnostica, state cominciando almeno a prendere coscienza di voi stessi e ad acquisire la libertà di cambiare. Quello che mi fa più paura dei malati di mente è la loro mancanza di consapevolezza su quello che succede dentro di loro (dovuta in parte ai malintesi delle superstizioni popolari, della psicologia, della psicoterapia e della stessa medicina), ciò li porta a perdere la libertà di cambiare: continuano in ogni circostanza a fare sempre le stesse cose.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

Se volete diventare fobici c’è un termine che dovete cancellare dal vostro vocabolario: “paura”. State lì con le gambe tremanti, il petto in fiamme, il cuore che batte all’impazzata, i capelli dritti, vi squagliate in sudori freddi, avete gli occhi fuori dalle orbite, ma non avete paura. Avete una fobia, un attacco di panico, una crisi di nervi. Paura, mai.

Chi ha paura scappa, invece voi non scappate mai: rimanete paralizzati, chiamate qualcuno, al limite andate all’ospedale. Non scappate nemmeno dai luoghi elevati, dai tunnel, dai supermercati, da una piazza deserta, da certi animali al massimo evitate di andare in questi posti per non avere un attacco. Ma anche così, è meglio tenere segreta questa eventualità, perché gli altri non vi considerino meno coraggiosi di quanto siete. Riuscirete a mettere insieme un’infinità di argomenti per convincere gli altri (e magari voi stessi) che si tratta della soluzione migliore per tutti.

Ammettiamo che in effetti siete persone coraggiose, ma è proprio qui il problema. la carriera di fobico inizia molto precocemente. Sicuramente un buon fobico comincia fin da piccolo a ficcarsi in avventure temerarie, ed è naturale che di tanto in tanto perda di vista i genitori. A questo sopravvive, con maggiore o minore angoscia. Ma appena capisce che non muore nessuno, comincia ad andare sempre più in là. I vantaggi sono immensi: la vostra vita si arricchisce di nuove esperienze e, se tutto va bene, non vi mancherà l’occasione per altre sfide. Sperimenterete una vita senza limiti, e in generale va tutto bene.

Non sempre però: vi rompete una gamba, vi riempiono di botte, dovete sbrigarvela con la polizia, fate brutti incontri. A questo punto, in lacrime (di pentimento), cercherete rifugio presso la famiglia e i genitori. I quali non chiedono di meglio perché hanno l’occasione, per la millesima volta, di mettervi in guardia contro i pericoli di un mondo impossibile. Il tutto comunque non fa che rafforzare la vostra attrazione per la magia di quel mondo, e finite per gustare il doppio piacere della trasgressione e della tenerezza, se le cose vanno male. Così per voi la famiglia diventa preziosa, un sicuro rifugio nelle tempeste. Senza accorgervene state diventando dipendenti. La sola idea vi porta a cercare l’indipendenza a tutti i costi e a mettervi di nuovo nei pasticci. Attaccamento o distacco, questo è il vostro grande dilemma.

Continuando così, però un giorno vi stufate e decidete di optare proprio per la stabilità. I primi tempi andrà tutto bene, ma preparatevi a quello che seguirà.

La vita misurata e abitudinaria non fa per voi. Se eravate pronti ad andare a 200 all’ora, perché ora dovreste rispettare i limiti di velocità? Casa, famiglia, lavoro, che angoscia! È ovvio che lo fate in nome di principi che avete accettato, che altri seguono e che voi trovate ragionevoli. In primo luogo, i valori familiari. Però non vi sentite bene. Vi scoprite a sospirare, circostanza che si ripete sempre più spesso. Sospirate, sospirate a volontà, perché questo è il vero segreto dei fobici.

Gli eventi possono precipitare da un momento all’altro, ma ci sono avvenimenti che aiutano, soprattutto quelli che vi mostrano l’esistenza di confini definitivi. Se, ad esempio, un vostro amico ha un incidente, se qualcuno che conoscete resta vittima di un infarto, se perdete una persona cara, comincerete a pensare che la vita, oltre che piatta, è anche pericolosa, proprio come vi avevano detto i vostri genitori. È naturale che iniziate a preoccuparvi per voi stessi: vi ritraete sempre di più, e per questo sospirate sempre di più.

Se non vi capita nessuna disgrazia, non perdete le speranze e cercate un’altra ragione per sospirare. Provate a rinunciare ai vostri sport preferiti e a sospirare ancora di più. A volte potrà sembrarvi che l’aria non circoli bene, e vi mettete a sforzare il respiro. Continuate così, per constatare che più respirate meno sospirate, ed è proprio questa la strada giusta per raggiungere il vostro obiettivo.

Vi avevo già detto che il segreto della fobia sta nel sospirare. Adesso però è arrivato il momento di avvertirvi che a interessarci non sono i sospiri, ma l’iperventilazione. Infatti, più sospirate più arricchite di ossigeno i polmoni e il sangue. Visto che quelle canaglie dei polmoni si ostinano a lavorare da soli, quando c’è troppo ossigeno nel vostro sangue (e troppo poca anidride carbonica) smettono di lavorare. Risultato: il vostro diaframma non si muove, i riflessi si disattivano, e soprattutto si disattiva quel riflesso di espirazione che da sollievo al sospiro ( per i più curiosi, si tratta del riflesso di Hering – Breuer). Al momento però, spaventati come siete, pensate di non riuscire a respirare. Bisogna sforzare il respiro, cosa che complicherà tutto ma vi aiuterà a raggiungere i vostri scopi.

In effetti, oltre ad avere i polmoni momentaneamente paralizzati, state modificando tutto l’organismo (per gli specialisti, diminuisce l’acidità degli organi interni per mancanza di anidride carbonica). Di conseguenza: gli organi cominciano ad andare a 100 all’ora, contraendosi e decontraendosi. Il cuore batte, i muscoli tremano, l’intestino borbotta, le arterie si contraggono provocando vertigini e dolori al petto, la pelle comincia ad avvertire le più svariate sensazioni, dette anche formicolio. A questo punto avete una sufficiente quantità di motivi per convincervi di avere la malattia che temete: se pensate di stare soffocando, verificate che il vostro diaframma non si muove (e continuate a sforzare il respiro); se vi preoccupa una disfunzione cardiaca, controllate i battiti e il dolore al petto,; se è la digestione a impensierirvi, fate attenzione alla tempesta nel vostro intestino; se avete paura di una trombosi, tenete conto delle vertigini e del formicolio.

Ovviamente il vostro organismo è accelerato e ossigenato dal proposito di scappare a gambe levate (l’organismo è predisposto a queste reazioni automatiche). Anche voi avvertite l’impulso, e siete arrivati a credere di stare perdendo il controllo e di uscire pazzi. Ma fuggire mai: restate lì piantati a sopportare tutte queste sensazioni, a complicare ogni cosa con la respirazione, a sentirvi svenire e pensare di morire. Potreste chiedere aiuto, è probabile che vi portino da un dottore o all’ospedale. Avete appena avuto un attacco, e i medici vi diranno che si tratta di un “attacco di panico”.

A questo punto è meglio cominciare a preoccuparvi della vostra salute fisica, in fin dei conti cosa potrebbe mai dirvi uno psicoterapeuta? È preferibile passare da diversi medici eccentrici o poco preparati, che vi diranno cose contraddittorie e vi aiuteranno così a prestare maggiore attenzione alla vostra salute. A questo punto comincerete a premunirvi: smetterete di fare esercizio fisico per non avere più palpitazioni, continuerete a trastullarvi con gli onnipresenti sospiri e, per sicurezza, non tornerete mai sul luogo (del delitto) dell’attacco. Abbiamo già visto che eravate in conflitto con la vita piatta ma necessaria che conducevate. Per fortuna, è molto probabile che un simile attacco capiti in momenti in un momento in cui vi state spingendo troppo in là. Può accadere in viaggio, attraversando un ponte, durante un incontro tentatore, in un supermercato, nell’ebbrezza di libertà e rischio data dalla vetta di una montagna o da una grande piazza deserta. Per restare fedeli alla vostra prigione, l’ideale è evitare queste situazioni, fin troppo ovvie o semplicemente simboliche (non dimentichiamoci che l’uomo è un animale simbolico).

La cosa migliore è fregarsene del simbolismo ed evitare semplicemente le situazioni in cui vi può venire un attacco. Il problema adesso è la vostra geografia ambientale. Vi abituerete a uscire sempre accompagnati, non sia mai vi capitasse qualcosa quando state soli, ma la realtà è che questo è il miglior modo per coltivare quei legami che non volete perdere.

Le cose si complicano, perché il solo pensiero degli attacchi vi spaventa e vi procura nuovi attacchi. Ormai riconoscete di aver paura, ma non una paura qualsiasi: unicamente la paura di aver paura. E al minimo segnale di allarme via subito da quel luogo. A poco a poco comincerete ad evitare tutto fino a non poter uscire di casa. Avrete anche perso ogni autonomia, perché non riuscirete più a fare niente da soli. Siete totalmente dipendenti dagli altri, motivo per cui non c’è più nessun rischio di separazione. Voi che avevate una vita senza limiti, siete rimasti bloccati negli angusti confini del vostro focolare. Se le cose proseguiranno in questo modo, avrete avuto in dono la perla delle fobie: una “agorafobia con attacchi di panico”.

Vi consiglio a questo punto di trovare un aiuto competente, altrimenti correte il rischio di imbarcarvi troppo tardi i un’altra carriera patologica (depressione, somatizzazione, etc).

Articolo tratto da: “Come diventare un malato di mente” di J.L. Pio Abreu, 2003, Voland S.r.l.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

“La pelle è il confine col mondo, il corpo è l’unica cosa sulla quale un adolescente – in quella fase della vita – sente di avere un potere, e quel potere lo affascina”.

Tagliare, incidere, ferire la pelle, gambe e braccia con lamette, coltelli affilati, temperini, punte di vetro, lattine usate: è il cutting, una forma di autolesionismo che comprende una vasta gamma di comportamenti tra cui soprattutto il taglio, ma anche piccole ustioni, graffi ed ematomi e che comincia a diventare un fenomeno corposo in Italia tra i ragazzi di età compresa tra i 12 e i 18 anni.

Il 70 per cento sono ragazzine dai 12 ai 14 anni, che nella maggioranza dei casi scelgono di ferirsi le braccia con la lametta. Il 19 per cento, uno su cinque, riesce a smettere di tagliarsi, ma solo grazie al supporto di uno psicoterapeuta.

Non c’è un’unica spiegazione che renda conto dei motivi per cui una persona può decidere di tagliarsi. Se alcuni ragazzi e ragazze si tagliano, è per controllare e interrompere, in modo indiretto, un dolore mentale troppo forte, un’angoscia troppo intensa e insostenibile: preferiscono soffrire nel corpo che psicologicamente, preferiscono il dolore fisico al dolore mentale e fanno in modo che il dolore fisico prenda il posto di quello mentale. Le ferite inflitte al corpo sono un mezzo estremo con cui lottare contro la sofferenza psicologica.

Per altri adolescenti tagliarsi è un modo per percepire di esistere ed essere vivi: meglio un dolore fisico che non sentire niente o sentirsi vuoti e inutili.

Tagliarsi dà l’illusione di un sollievo, a volte addirittura euforia, come se dai tagli fuoriuscissero finalmente le emozioni che non si riescono a tollerare dentro di sé: la disperazione, la tristezza, il sentirsi rifiutati, la solitudine e soprattutto la rabbia verso qualcun altro da cui si sente di dipendere e che si teme si allontani. È una rabbia che diventa odio contro se stessi e la propria incapacità nel gestire una data situazione.

La ferita crea un rifugio provvisorio, che consente all’individuo di riprendere fiato: […] serve a scaricare una tensione, un’angoscia che non lascia più alcuna scelta, nessun’altra risorsa – e di cui l’individuo deve potersi liberare.

Tagliarsi, ma anche bruciarsi con le sigarette (burning) o marchiarsi a fuoco la pelle con un laser o un ferro rovente (branding) o grattarsi sino a farsi uscire il sangue, permette, in assenza di strategie più mature e funzionali, di ristabilire un equilibrio, di ricollocarsi nella propria vita, di esprimere la propria indipendenza affettiva dai genitori o una sfida nei confronti delle regole che questi ultimi vogliono imporre.

I segni e le cicatrici lasciati da questi gesti autodistruttivi racchiudono una sofferenza per la quale la persona non ha ancora trovato parole per raccontarla e spiegarla.

Cutting, burning e branding sono comportamenti particolarmente frequenti durante l’adolescenza. E questo non è un caso, se teniamo presente che il corpo che cambia, amato e al tempo stesso rifiutato, il corpo dove nasce il desiderio sessuale e in cui si radica l’identità è il terreno di battaglia di ogni adolescente, di ogni ragazzo e ragazza.

Con il tagliarsi, l’adolescente cerca una disperata via d’uscita dalla fatica per lui insostenibile della crescita, dal senso di fallimento per il non sentirsi in grado di farcela a diventare grande.

Come accorgerti che tuo figlio o un tuo amico si tagliano?

Chi decide di tagliarsi lo fa di solito di nascosto e cerca di mantenere il segreto su questo comportamento. Eventuali indicatori dell’esistenza di comportamenti di cutting, burning o branding possono essere:

  • vestiti non appropriati alla stagione, ad esempio indossare esclusivamente camicie o magliette con le maniche lunghe in piena estate;
  • macchie di sangue sui vestiti;
  • ferite, lividi o tagli non spiegati;
  • possesso di oggetti taglienti (rasoi, lamette, forbici, coltellini, aghi, pezzi di vetro);
  • isolamento, ad esempio passare molto tempo in bagno;
  • irritabilità;
  • difficoltà nel fronteggiare emozioni forti;
  • rabbia eccessiva o umore depresso;
  • mancanza di legami sociali;
  • disegni, scritti ecc. che hanno per tema il dolore, la tristezza, il ferirsi.

Diagnosi di autolesionismo

Il DSM-V (APA; 2013) considera l’autolesività non suicidaria come categoria diagnostica a sé stante. I criteri per la diagnosi di autolesionismo proposti nel manuale sono i seguenti:

Criterio A

Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea in grado di indurre sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi, strofinandosi eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria).

Criterio B

L’individuo è coinvolto in condotte autolesive con una o più delle seguenti aspettative:

  1. Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi
  2. Risolvere una difficoltà interpersonale
  3. Indurre una sensazione positiva

Criterio C

L’autolesività intenzionale (le condotte autolesive)è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi:

  1. Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.
  2. Prima di compiere il gesto autolesivo, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere.
  3. Pensieri di autolesività presenti frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto. 

Autolesionismo: una categoria diagnostica, diverse forme di sofferenza

Nel DSM-V (APA, 2013) l’autolesionismo è stato inserito come categoria diagnostica a sé stante; ciò non significa che i comportamenti autolesivi siano riconducibili ad un’unica modalità di auto-danneggiamento. L’identificazione delle diverse forme che il disturbo può assumere risulta utile per fare chiarezza e facilita un intervento tempestivo.

Le 3 categorie di autolesionismo

Ciò che in letteratura è definito  ‘deliberate self harm’ – in italiano ‘auto-danneggiamento intenzionale’- comprende un ventaglio di comportamenti patologici, riconducibili a tre categorie principali:

  1. le condotte di auto-danno, come l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua e il gioco d’azzardo,
  2. le condotte di auto-avvelenamento, come l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe,
  3. le condotte autolesive, come tagliarsi e bruciarsi. 

Categorie delle condotte autolesive

Già negli anni Novanta le ricerche condotte da Favazza e colleghi hanno reso possibile una prima classificazione delle condotte autolesive. Favazza e Rosenthal (1993) hanno identificato diverse tipologie di autolesionismo sulla base del grado di danneggiamento dei tessuti e dei pattern comportamentali.

  • L’autolesionismo maggiore consiste in atti infrequenti e isolati che provocano un danneggiamento dei tessuti grave e permanente; solitamente è associato alle psicosi o alle intossicazioni acute e include atti quali la castrazione e l’enucleazione oculare.
  • L’autolesionismo stereotipico comprende comportamenti ripetuti in modo costante e ritmico, che sembrano essere privi di un significato simbolico, comunemente associati a grave ritardo mentale, all’autismo o alla sindrome di Tourette; ne sono esempi il mordersi o dare colpi con la testa.
  • L’autolesionismo moderato o superficiale consiste in atti episodici o ripetuti a bassa letalità che comportano un lieve danneggiamento dei tessuti corporei (tagli, bruciature, abrasioni). Il soggetto utilizza strumenti esterni come rasoi, lamette, forbicine e compie gesti autolesivi che solitamente hanno un significato simbolico, in genere relazionale. All’interno di questa categoria, Favazza e Simeon (1995) hanno identificato tre forme principali. 

Le 3 forme di autolesionismo moderato

L’autolesionismo moderato è definito compulsivo quando si declina in comportamenti quotidiani, come la tricotillomania (tirarsi i capelli) o l’onicofagia (mangiarsi le unghie); si tratta di una forma di discontrollo degli impulsi.

Episodico è invece un tentativo di riacquisire un senso di controllo e padronanza di fronte a emozioni e pensieri intollerabili, mettendo in atto comportamenti autolesivi come tagliarsi, bruciarsi o colpirsi.

Ripetitivo, infine, è una dipendenza dal comportamento autolesivo, che può diventare identitario (Es. ‘sono un cutter’).

 

“Perché ti tagli?”: le cause dell’autolesionismo

Il quadro delineato mostra chiaramente che il termine autolesionismo è un’etichetta diagnostica che racchiude comportamenti e vissuti anche piuttosto diversi tra loro. Nell’indagare le cause di tali gesti è quindi opportuno cercare di tracciare un quadro variegato, evitando semplificazioni fuorvianti.

Autolesionismo come strategia di coping

L’autolesionismo può costituire una strategia di coping e regolazione emotiva: di fronte allo stato emotivo indesiderato e vissuto come intollerabile, il soggetto si ferisce cercando di ripristinare uno stato tollerabile. Si potrebbe dire che la messa in atto di comportamenti autolesivi sia un tramutare in sofferenza fisica (quindi più reale e più facilmente gestibile) una sofferenza emozionale che non si sa come gestire: per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore (Chapman et al., 2006; Klonsky, 2007; Kamphuis et al., 2007). In questo senso l’autolesionismo sembra assumere la valenza di una strategia disadattava di coping (nozione proposta da Favazza, 1998).

Autolesionismo come punizione autoinflitta

Una seconda funzione dell’autolesionismo è la punizione autoinflitta: sembra infatti che, per alcuni soggetti, tra l’autocriticismo e i comportamenti di autodanneggiamento esista una relazione causale (Nock et al., 2008; Hooley & St Germain, 2013).

Autolesionismo come comunicazione

Infine, l’autolesionismo può costituire una forma di comunicazione del proprio disagio. Attraverso le ferite, infatti, la propria sofferenza appare evidente agli occhi degli altri.

 

G.Massimo Barrale - Psicologo Psicoterapeuta - Palermo

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